L'emergenza finanziaria è ormai un lontano ricordo. O almeno così sembra, se solo si confrontano le cronache di questi giorni con quelle di un anno fa: nessuno parla più d'imminenti tracolli di grandi banche (anche se continua lo stillicido di chiusura di piccoli istituti, specie negli Usa) o di paesi sull'orlo di default clamorosi. Eppure bastano poche cifre per ricordare la gravità del rischio corso e l'ampiezza degli interventi resisi necessari su scala globale.
Secondo stime congiunte del Fondo monetario e della Banca mondiale, le perdite del sistema finanziario internazionale sono ammontate a 4.100 miliardi di dollari (di cui 2.700 solo per gli Usa) e gli aiuti necessari a tamponarle sono valutati in almeno 1.100 miliardi. Si tratta di somme colossali, anche se riferite a differenti contesti. Quanto alle perdite, tanto per stabilire un termine di paragone, si tratta di ben il 6,7% dell'intera ricchezza mondiale prodotta lo scorso anno. Oppure, per dirla in altro modo, al Pil di un paese come il Giappone. O di Italia e Francia messe insieme.
Le "vittime" della crisi sono state moltissime: il 40% dei Paesi in via di sviluppo – ha calcolato il nigeriano Martin Ihoeghian Uhomoibhi, presidente del Consiglio dell'Onu per i diritti umani (Unhrc) – è risultato «fortemente esposto» alle conseguenze dei tracolli finanziari sui livelli d'indigenza; 37 dei 53 paesi africani e 17 dei 52 asiatici hanno conosciuti netti aumenti dei livelli di povertà. Ma contraccolpi durissimi hanno subito anche i numerosi paesi per i quali le rimesse degli emigrati hanno assunto un'importanza cruciale nella formazione del Pil, dal Tagikistan (45%) alla Moldova (38%), dall'Honduras (25%) alla Guyana (24%) e a El Salvador (18%): la crisi economica generalizzata, abbattendo le opportunità di lavoro nei paesi industrializzati, ha drasticamente falcidiato tali flussi, provocando forti contraccolpi finanziari e costringendo un paese come El Salvador a ricorrere nel gennaio a una linea di credito di 800 milioni del Fmi. Fatte le dovute proporzioni, per l'Italia sarebbe stato come chiedere oltre 85 miliardi.
Sono tuttavia le risorse mobilitate per il recovery a risultare, per molti versi, ancor più impressionanti e impegnative. Lo sforzo maggiore è ovviamente venuto da Stati Uniti e Giappone, che hanno stanziato 100 miliardi di dollari ciascuno nell'ambito del Fmi (anche per non perdere il proprio peso percentuale nella composizione del sistema di voto all'interno del Fondo e, di conseguenza, nel relativo diritto di veto, è stato maliziosamente osservato per gli Usa), seguiti da Canada (10 miliardi), Norvegia (4,5) e altri. Diversi tra i maggiori paesi emergenti (Brasile, Russia, India e Cina), grazie ai loro colossali surplus commerciali accumulati negli ultimi anni, hanno invece sottoscritto le obbligazioni emesse dal Fmi.
Il risultato è stato la moltiplicazione per quattro delle disponibilità del Fmi, da 250 a 1.000 miliardi di dollari, approvata dal vertice del G-20 di Londra dell'aprile scorso, anche se questo, secondo diversi tra i Pvs più poveri, ha rappresentato "troppo poco e troppo lentamente", con un ritorno di fiamma delle accuse al Fmi di essere una delle cause, con le proprie politiche rigidamente restrittive, dell'impoverimento e del sottosviluppo del Terzo mondo.
Resta il fatto che il Fmi ha erogato, al 24 settembre scorso, ben 106,44 miliardi di dollari nell'ultimo anno, ripartiti su 21 paesi a rischio, cui vanno sommati altri 2,77 miliardi su 29 linee di credito per i paesi più piccoli. Accanto a queste risorse vanno inoltre conteggiati i 120 miliardi di dollari stanziati all'inizio di maggio dai paesi asiatici. Cina e Giappone hanno nuovamente fatto la parte del leone, con 38,4 miliardi ciascuno, seguiti da Sud Corea (19,2) e i 4 paesi Asean più ricchi (Malaysia, Singapore, Indonesia e Thailandia) con 4,7 miliardi ciascuno.