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Le contraddizioni nei due poli che preparano il confronto

di Stefano Folli

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6 aprile 2010

Si capirà presto se il clima più sereno nella vita politica, sottolineato da Giorgio Napolitano a mo' d'incoraggiamento, è una novità genuina oppure il solito tatticismo destinato a produrre altre delusioni. Sulla carta, lo dicono in tanti, le circostanze sono favorevoli alle riforme come mai nel recente passato: almeno dal fallimento della Bicamerale di D'Alema. E senza dubbio una fase di riconciliazione dopo gli anni del bipolarismo cruento è un'esigenza diffusa. È ciò a cui fa riferimento anche il Quirinale. Ma il cammino è appena agli inizi, mentre in entrambi i campi si colgono contraddizioni in grado di affossare il confronto.

In primo luogo, la maggioranza ha il dovere di fare il passo d'inizio e in apparenza il compito non è proibitivo. Tuttavia la miscela composta da riforma della magistratura, federalismo, riassetto istituzionale e presidenzialismo può risultare indigesta. Tutto dipende da come verrà calibrata.

Tra la Lega desiderosa di costruire l'impianto federalista, non solo nel suo aspetto fiscale (vedi domenica l'intervista del ministro Calderoli a questo giornale), e Berlusconi proteso verso i temi della giustizia e del presidenzialismo, c'è una sensibile differenza. O meglio, se si tratta semplicemente di compilare un elenco di riforme necessarie, le difficoltà non sono rilevanti. Lo diventano nel momento in cui si deve passare dalle parole ai fatti. Ecco perché anche il colloquio di oggi tra Berlusconi e Bossi ha la sua importanza.

Si tratta di capire, in altri termini, se la maggioranza è davvero interessata a discutere con il centrosinistra e l'Udc. O se vuole soltanto metterli con le spalle al muro. Sotto questo aspetto, il buon senso consiglierebbe di procedere sul terreno dove è più probabile, addirittura scontato, un certo grado di accordo. Per esempio partendo dalla cosiddetta «bozza Violante», un documento equilibrato già votato in Parlamento. È di qui che si può tessere un filo realmente «trasversale». E non a caso Bossi e Calderoli, ma anche Fini dalla sua poltrona di presidente della Camera, guardano a questa prospettiva.

Se invece si vuole incalzare l'opposizione e giocare sulle sue proverbiali incertezze, allora il gioco è fin troppo facile. Basta insistere con intransigenza sulla giustizia (compresa la legge sulle intercettazioni) e raddoppiare con il presidenzialismo: una riforma, quest'ultima, di cui nessuno ha compreso i termini, ma che proprio per questo suscita sospetti a non finire. Come ricordava ieri Emma Bonino, c'è il presidenzialismo anche in Venezuela. Ma in una forma ben diversa da quello di Washington, oppure dal semi-presidenzialismo di Parigi. In altri termini, in Italia la logica suggerisce di rafforzare prima di ogni altra cosa i poteri del Parlamento, consolidando tutti gli istituti di garanzia.

In secondo luogo, ci sono le incongruenze della sinistra. Come ha osservato sulla «Stampa» Luca Ricolfi, è consigliabile per il Pd affrontare il confronto sulla scorta di proprie idee e proposte. Ma queste ultime richiedono che si sciolga prima l'eterno dilemma: il centrosinistra vuole un accordo di sistema con Pdl e Lega, pensando che sia nell'interesse del paese? O ritiene di salvaguardare meglio la propria identità rifiutando qualsiasi intesa in nome dell'«emergenza democratica» e dunque della permanente minaccia berlusconiana? Ormai è il momento di scegliere. Sapendo che la terza ipotesi, restare a metà strada, è la peggiore.

6 aprile 2010
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