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Nell'Italia dei tre presidenti

di Michele Ainis

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6 dicembre 2009

Sorpresa: l'Italia del presidente non c'è più. Dopo le elezioni del 2008, ci eravamo baloccati a lungo con l'idea del capotreno che dirige il nostro convoglio collettivo. Strada facendo abbiamo scoperto viceversa che il treno ha molte teste, oltre quella del presidente del Consiglio. C'è insomma un'Italia dei presidenti, a cominciare da Napolitano e Fini. Quest'ultimo, in particolare, innesca frizioni quotidiane con il presidente Berlusconi. Da qui la tachicardia della maggioranza di governo. Da qui il tormentone sugli scenari futuri (quale progetto alternativo al Pdl ha in mente il presidente della Camera?). Da qui, infine, il dente avvelenato che morde Fini proprio dove fa più male, sotto il doppiopetto blu con cui dirige i lavori di Montecitorio. In breve: vuoi continuare a far politica? Allora avresti dovuto sceglierti un altro mestiere, non quello del garante. Perché l'arbitro è muto, a differenza del tifoso. E perché se invece parla, e parla contro la maggioranza che lo ha eletto, qualche grammo di coerenza dovrebbe spingerlo a dimettersi, a fare le valigie.

Quest'ultima obiezione è la più grave, dato che rimprovera al garante delle regole di violare a propria volta le regole del gioco. Tuttavia s'espone anch'essa a una sfilza di obiezioni. In primo luogo, cade in contraddizione con se stessa: se l'arbitro non può fischiare mai contro il governo, significa che non c'è partita, o meglio c'è una partita truccata. Ecco perché non fa politica il garante che bacchetta la politica: fa semplicemente il suo lavoro. E d'altronde fra gli organi politici e quelli di garanzia costituzionale non può non esserci un rapporto dialettico, o talvolta antagonistico.

In secondo luogo, l'accusa di slealtà al presidente Fini è viziata da un errore storico, per non dire archeologico. La piena consonanza fra il primo ministro e il presidente della Camera risale infatti all'esperienza dello Statuto albertino, due secoli fa. A quel tempo succedeva che il capo del governo rassegnasse le proprie dimissioni quando la Camera eleggeva un presidente scomodo o sgradito (fu così per Menabrea nel 1869, De Pretis nel 1878, Zanardelli nel 1902). E ancora più spesso succedeva che si dimettesse il presidente della Camera, contemporaneamente alla caduta del governo (Biancheri nel 1876, Farini nel 1878 e nel 1879, poi molti altri ancora). Ma il matrimonio comincia a rompersi già il 2 marzo 1877, quando Francesco Crispi cancella il proprio nome dall'elenco dei votanti, inaugurando una prassi da allora in poi sempre rispettata: il presidente della Camera non vota, e dunque non vota in favore del governo. Oggi questo matrimonio costituzionale non c'è più, non c'è nemmeno una coppia di fatto.

In terzo luogo, il presunto scandalo di Fini è immemore anche della nostra storia più recente, tutta costellata d'attriti e battibecchi fra l'esecutivo e i presidenti delle assemblee legislative. Qualche esempio: la replica piccata di Nilde Iotti (marzo 1989) quando De Mita, nella sua veste di presidente del consiglio, aveva criticato il parlamento. Il duro monito di Pietro Ingrao (gennaio 1977) contro l'abuso dei decreti legge. Il j'accuse di Bertinotti sulle deficienze del governo Prodi (gennaio 2008). E via via, l'elenco è più lungo d'un lenzuolo.

Insomma niente di nuovo sotto il sole. La novità piuttosto è un'altra, e non c'è da rallegrarsene. Investe la concezione del potere che ispira i critici di Fini: un potere solitario, senza contropoteri sulla scena. Investe il ruolo dei custodi, perché li vuole sordi e ciechi, e con la lingua mozza. Investe in ultimo il concetto stesso di Costituzione. C'è infatti una teoria della Costituzione dietro questa polemica sulle troppe esternazioni del presidente Fini, anche se i polemisti probabilmente non se ne sono accorti. È l'idea della legge fondamentale come programma rivolto unicamente al binomio governo-Parlamento, dunque alla maggioranza che ha in pugno le sorti del Paese. Con la conseguenza che se la maggioranza resta inerte, nessun altro potrà assumerne le veci. Meno che mai gli organi di garanzia costituzionale: loro, al più, possono alzare una paletta rossa, se e quando il programma costituzionale venga apertamente contraddetto dalle scelte di governo.

Ma pure questo è un film già visto. Più precisamente, durante la prima legislatura dell'età repubblicana, quando la Carta venne messa per l'appunto in frigorifero. Poi, però, Vezio Crisafulli ci ha insegnato che la Costituzione va applicata magis ut valeat, al meglio della sua capacità espansiva; e va applicata anche dai giudici, senza aspettare le leggi di attuazione. A sua volta, Paolo Barile ci ha insegnato che accanto all'indirizzo politico di maggioranza c'è spazio per un indirizzo politico-costituzionale, incarnato in primo luogo dal capo dello Stato. Fu così che nel 1955 il presidente Gronchi spronò il paese a dare gambe e fiato ai principi costituzionali. Viva vox constitutionis, lo salutò Calamandrei; e arrivò il disgelo. Sarebbe un paradosso tornare adesso all'era glaciale. Sarebbe un controsenso costituzionale chiedere a Fini di tacere sui valori che ancora reclamano attuazione: per esempio uguaglianza e solidarietà verso gli immigrati. Sarebbe, in conclusione, negare la forza propulsiva della Costituzione.

michele.ainis@uniroma3.it

6 dicembre 2009
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