Da tre anni e mezzo a questa parte, da quando cioè un commando palestinese attaccò un posto di frontiera israeliano nel sud della striscia di Gaza, uccidendo due militari di Tsahal e catturandone un terzo, la sorte del ventenne soldato Gilad Shalit è divenuta in Israele un autentico psicodramma. Né la vicenda è rimasta confinata entro i confini dello Stato ebraico: nel frattempo, il soldato prigioniero si è visto attribuire la cittadinanza onoraria di Parigi e di Roma. Ma adesso, alla possibile vigilia della liberazione di Shalit per opera di Hamas in cambio della liberazione di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, anche altri nodi della questione meriterebbero di venire al pettine.
Per gli israeliani, Gilad Shalit è un simbolo di martirio. Segregato tre anni e passa in qualche misterioso sottoscala di Gaza, senza poter inoltrare ai familiari niente più che tre lettere, senza nulla poter ricevere da loro, e senza che Hamas abbia permesso neppure alla Croce Rossa di verificarne lo stato di salute, in spregio al diritto internazionale umanitario: a tali condizioni, come stupirsi che la salvezza del soldato Shalit sia vissuta in Israele come una priorità nazionale? Pellegrinaggi, fiaccolate, raduni, cortei. E la prevalenza sempre più netta di un "partito della trattativa" su un "partito della fermezza". Se pure, per liberare Shalit, Hamas richiede allo Stato ebraico un prezzo altissimo, gli israeliani appaiono ormai pronti a pagarlo.
Il governo di Benjamin Netanyahu sembra disposto a trattare sulla base di una proporzione esorbitante: mille a uno. I termini esatti del negoziato restano segreti, ma domenica scorsa fonti governative israeliane hanno parlato di 980 palestinesi che ritroverebbero la libertà in cambio di Shalit. Nei fatti, può ben succedere che la trattativa finisca con l'arenarsi, laddove Hamas insistesse per la scarcerazione di alcune decine di terroristi che Israele rifiuta di includere nello scambio. In ogni caso, una cosa è sicura. Dopo essersi lungamente dichiarato indisponibile a negoziare, Israele sta trattando. E sta trattando sulla base aritmetica di quanto Hamas ha sempre richiesto, dal 2006 a oggi: mille contro uno.
Nel momento in cui sembra pronta a inchinarsi davanti alla dismisura della richiesta palestinese, Israele dimostra quanto consideri sacra la vita di ogni suo militare. Per lo Stato ebraico, salvare il soldato Shalit (promosso caporale durante la prigionia) significa salvare l'anima di un Paese nato da una guerra e cresciuto nelle guerre. Il 2 ottobre scorso, il governo Netanyahu ha liberato venti detenute palestinesi in cambio di un semplice video, che mostrava Gilad Shalit ancora vivo e in buona salute. Per il bene di Israele, salvate il soldato Shalit. Il resto - la striminzita contabilità dei numeri - non deve contare. Abbasso l'aritmetica, viva l'etica.
Senonché, da tre anni e mezzo in qua, altri numeri e altre proporzioni esorbitanti hanno scandito questa drammatica storia. Numeri e proporzioni di cui l'opinione pubblica israeliana ha scelto di non tenere conto, e che l'opinione pubblica internazionale rischia di dimenticare. I numeri sono quelli dei palestinesi uccisi per opera dell'esercito israeliano dal giorno del sequestro di Shalit, 24 giugno 2006, fino a oggi, attraverso quattro offensive massicce nella striscia di Gaza. Durante i primi due anni dopo il rapimento, circa seicento vittime palestinesi (civili, nella stragrande maggioranza dei casi) contro una manciata di soldati israeliani. Fra dicembre 2008 e gennaio 2009, con la cosiddetta operazione "Piombo fuso", addirittura 1330 morti palestinesi (civili nella stragrande maggioranza) contro 13 vittime israeliane (dieci militari, tre civili). Sono numeri più parlanti di qualunque discorso: nell'ultima offensiva di Tsahal, la proporzione dei morti è stata esattamente di cento a uno.
Abbasso l'aritmetica, dunque, ma abbasso anche l'etica. Oggi, nessun osservatore internazionale minimanente assennato può condividere un mito che pure resta diffuso entro i confini di Israele, il mito secondo cui Tsahal sarebbe l'unico "esercito morale" rimasto al mondo. Non è morale un esercito che combatte la guerra più asimmetrica della storia, il fior fiore delle tecnologie militari più avanzate contro un milione e mezzo di civili (e qualche migliaio di terroristi) rinchiusi a forza in 360 chilometri quadrati. Non è morale un esercito che maramaldeggia da decenni sopra un avversario privo di un singolo aereo o di un singolo tank. Non è morale un esercito che saluta come brillanti vittorie operazioni militari dove si uccide a cento contro uno. Soprattutto, non è morale un esercito che accetta a cuor leggero di annientare i bambini e gli adolescenti: nei venti giorni dell'operazione "Piombo fuso", i minorenni palestinesi uccisi da Tsahal sono stati almeno 430.
Così, si ha ragione di denunciare Hamas per violazione del diritto internazionale umanitario nel trattamento di Gilad Shalit. E si ha ragione di elevare il soldato Shalit a simbolo planetario, facendolo cittadino ad honorem di Roma o di Parigi. Ma si ha altrettanta ragione di denunciare Israele per violazione sistematica del diritto internazionale umanitario, nelle norme che regolano la proporzionalità del rapporto fra un'azione militare e le sue conseguenze sui civili. E si avrebbe ragione di conferire la cittadinanza onoraria in memoriam a uno qualsiasi delle centinaia di bambini o ragazzi palestinesi caduti sotto il piombo israeliano dopo il sequestro di Shalit, in questa nuova (e inutile) strage degli innocenti.