Si può dire tutto del decreto del governo, tranne che sia «interpretativo»: cioè che si limiti a offrire una lettura chiarificatrice delle norme elettorali in vigore. In realtà il decreto innova. E non poco: addirittura retrodatando certe innovazioni, sempre che il testo diffuso sia quello definitivo. Risponde senza dubbio all'obiettivo che Silvio Berlusconi si era posto: permettere «l'esercizio del diritto di voto» ai cittadini della Lombardia e del Lazio, al di là dei «formalismi». Ossia, come è noto, dei disastri commessi dal Pdl all'atto della presentazione delle liste.
Qualcuno dice: in fondo è il male minore. Lo fa capire anche il Quirinale, quando suggerisce che il decreto di ieri sera è diverso da quello prospettato a Napolitano ventiquattro ore prima. Quello sì, a quanto pare, molto più invasivo. Se è così, ci si muove sul filo del rasoio in una materia, quella elettorale, davvero incandescente. Il presidente della Repubblica è molto esposto ed è costretto a procedere lungo un sentiero che non è mai stato così stretto. Da un lato c'è il problema di garantire il voto a milioni di cittadini in due regioni di primo piano. Dall'altro, l'esigenza di rispettare una legge astrusa, forse anacronistica, ma pur sempre una legge.
Il Partito democratico, che si oppone ovviamente al decreto, e anzi si prepara ad alzare il livello della polemica politica, evita di accrescere le difficoltà del capo dello stato. D'Alema «copre la corona», rilevando che non spetta al Quirinale valutare l'opportunità politica di un atto del governo, ma solo la sua palese incostituzionalità. Come dire: il decreto interpretativo non è una ferita plateale alla Costituzione e dunque la controfirma di Napolitano è possibile.
Altri, nei ranghi dell'opposizione, non sono così prudenti. Di Pietro ha già lanciato una sorta di «chiamata alle armi» in difesa della Carta costituzionale; i radicali di Emma Bonino sono perentori; nello stesso Pd c'è chi (Rosy Bindi, Arturo Parisi) considera la scelta del governo alla stregua di un oltraggio. Ma è soprattutto la reazione dell'Italia dei valori ad avere un valore politico dirompente. Si capisce che tutta la campagna elettorale sarà giocata intorno al supposto «golpe». E il Pd sarà costretto a confrontarsi con Di Pietro su di un terreno assai scivoloso, perché finisce per tirare in ballo l'operato del capo dello stato.
Come è evidente, il passaggio è molto delicato. Il decreto ha un'utilità immediata, a patto che sia pubblicato oggi dalla Gazzetta ufficiale dopo l'indispensabile firma del presidente. È uno strumento potente per premere sui tribunali amministrativi che devono decidere sui ricorsi tra oggi e lunedì. Si può dire che il decreto copre le spalle ai Tar e li aiuta a prendere una decisione che da giorni si presentava, sì, come giuridica, ma con un clamoroso impatto politico.
In ogni caso gli avvenimenti delle ultime ore sono destinati a lasciare un'impronta sulle istituzioni. È facile capire con quale spirito il presidente della Repubblica si sia accinto alla firma. Se lo ha fatto, è perché ha ritenuto di dover evitare un grave scontro istituzionale. Senza dubbio un ruolo lo ha svolto nelle ore cruciali il presidente della Camera e questo dimostra che Fini, al di là delle polemiche, ha compiti preziosi di raccordo tra i palazzi romani. Certo, dopo questa vicenda è difficile immaginare che destra e sinistra tornino a discutere a breve di riforme. La verità è che Berlusconi ha ottenuto il suo scopo, ma le macerie stanno aumentando.