«Il mio nome è Bloor, John Bloor». È troppo timido per presentarsi così, ma la missione di un muratore divenuto miliardario a forza di impilare mattoni e audace abbastanza da rilanciare un glorioso cadavere dell'industria britannica, meriterebbe davvero una scheggia del mito di James Bond.
In realtà dovrebbe chiamarsi mister Triumph, questo signore di 65 anni portati con il garbo che sa avere solo chi si è fatto da sé. Chi ha visto il dolore del padre minatore, chi ha cominciato a faticare a 15 anni, in cantiere, per arrivare a comperarsi il marchio che siglò la fama di Marlon Brando nel "Selvaggio" e segnò l'apogeo dell'industria motociclistica britannica. Triumph, appunto.
Vende più di Kawasaki in Gran Bretagna ed è a un'incollatura da Yamaha, senza avere Valentino Rossi. Fu un case study nelle università di economia per la rapidità con cui scomparve un pomeriggio di un giorno qualsiasi, a fine anni 70, dopo l'ennesimo esperimento di ingegneria industriale dei laburisti britannici.
Tentarono di risollevare Bsa, Norton, Triumph mettendole tutte insieme con la benedizione del governo. Andarono tutte a rotoli fino a quando John Bloor pensò di insegnare una storia vagamente italiana – da self made man alla veneta, per intenderci – a un mondo in transizione. Era il 1983. Cominciò allora la lenta riscossa di Triumph, un mito che si consolida nelle classifiche di vendita, guadagna posizioni, torna a piacere.
Fra allora e oggi venticinque e più anni di dolorosa risalita che ha incrociato di tutto, anche le fiamme di un incendio devastante. Nella Gran Bretagna ad alto tasso di derivati e a bassa incidenza di manifattura, si consuma una storia che va contro corrente. Ci voleva davvero James... sorry, John, John Bloor.