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DOPO LA TRAGEDIA DI MESSINA / Il Ponte non torni a traballare

di Giuseppe Cruciani

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6 Ottobre 2009

Il Ponte non c'è ma traballa. I morti di Messina hanno di nuovo sollevato incertezze sull'opera più discussa del pianeta: quel collegamento stabile di tre chilometri che dovrebbe unire la Sicilia col resto d'Italia. Detto con rispetto: cosa c'entra la tragedia delle case portate via dal fango con un'opera come il Ponte? E perché, anche in un periodo di vacche magre, si deve scegliere tra il Ponte e la risistemazione del territorio che spetta soprattutto agli enti locali?
Nonostante le promesse del governo che i lavori cominceranno al più tardi all'inizio del 2010, su questa benedetta arcata di cemento ritorna la maledizione del benaltrismo, c'è sempre qualcosa di meglio da fare. Non importa se intorno allo Stretto l'Italia è in ballo da oltre cent'anni, se il progetto è stato avviato quando c'era ancora il vecchio pentapartito, se finora sono stati spesi più di 150 milioni di euro, senza che sia stato aperto un cantiere. Non si considera nemmeno un fatto molto importante, cioè che rinunciare adesso costerebbe un sacco di quattrini in penali da pagare al gruppo che ha vinto l'appalto per la realizzazione.
Si dice che bisognerebbe spostare i soldi del ponte (4 miliardi) per evitare che cose come questa non accadano mai più. A dire il vero, ci provò il governo Prodi, nel 2006, a dirottare 1,3 miliardi di euro dal Ponte alla manutenzione delle strade nel Mezzogiorno. Però quei soldi non arrivarono mai a destinazione, non solo per la caduta dell'Unione, ma anche per i tempi lenti della burocrazia e le incertezze dell'esecutivo. Con l'unico risultato di bloccare il progetto per altri due anni.
Ma il progetto del Ponte sullo Stretto può essere davvero definito un'opera "faraonica"? Forse dal punto di vista ingegneristico (una struttura a campata unica di tre chilometri, la più lunga del mondo se fosse realizzata) ma non per i suoi costi. L'intera struttura vale meno della Tav Torino-Lione e poco più della metropolitana C di Roma. Tanto per fare altri esempi, i trenta chilometri del passante di Mestre sono costati circa un miliardo, mentre per costruire alcune superstrade tra Umbria e Marche (in tutto 160 km) sono previsti investimenti per due miliardi. Eppure a nessuno viene in mente di interrompere i lavori e utilizzare quei soldi per mettere mano al dissesto idrogeologico delle coste italiane. Se davvero fosse sufficiente cambiare una voce di bilancio per salvare decine di vite umane, allora perché non cancellare subito la Pedemontana, la Brebemi o la metropolitana di Bologna? Senza dimenticare un principio di fondo: i ponti vengono costruiti ovunque, in ogni parte del mondo, spesso in condizioni ambientali e territoriali difficilissime.
È legittimo pensare che il Ponte sia uno spreco di denaro e che le previsioni elaborate dalla società dello Stretto per il rientro dei capitali investiti (il 40% dallo stato e il 60 dai privati, a dire il vero finora piuttosto timidi) siano troppo ottimistiche. C'è chi sostiene, dati alla mano, che alla fine sarà un flop economico e un salasso per le casse statali. Può darsi.
Ma questo non c'entra nulla con l'ondata di fango che ha travolto la Sicilia. Non a torto, un giorno il Wall Street Journal scrisse che il ponte di Messina «è l'esempio più clamoroso dell'incapacità della politica italiana di decidere e realizzare». Ed è vero che lo hanno promesso in tanti, Prodi, Berlusconi, Craxi, e furono addirittura i governi di centro-sinistra guidati da Massimo D'Alema e Giuliano Amato tra il '98 e il 2001 a dargli la spinta decisiva (con l'allora ministro Visco che annunciava i bandi di gara e diceva che sarebbe costato meno di un'autostrada). Eppure, a un passo dalla prima pietra, il Ponte torna di nuovo in bilico.

6 Ottobre 2009
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