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LE INEFFICIENZE ITALIANE / Se la scuola è meritocratica il paese migliora

di Innocenzo Cipolletta

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6 Ottobre 2009

Se non c'è cultura del merito in Italia, la colpa è della scuola. Questo sembrano dire i tanti che, in questo inizio d'anno scolastico, hanno voluto ricordare i guasti del '68 nel nostro sistema di istruzione, con la sua cultura egualitaria. Eppure, con tutti i loro limiti, scuola ed università restano le sole istituzioni che ancora prendono il rischio di formulare un giudizio, anche quantitativo, sul valore delle persone. Dopo di che, le cose cambiano radicalmente.
È la nostra società che non è basata sul merito, ma sulle relazioni, le appartenenze, le parentele, il conformismo. Come può una scuola da sola contrastare tutto questo? Quando uno studente termina gli studi e cerca un lavoro, la prima cosa che fa è rivolgersi alla famiglia ed agli amici. Niente di male, ovviamente. In tutti i paesi ci sono le segnalazioni per favorire la ricerca del lavoro. Ma queste altrove si chiamano "referenze", mentre da noi assumono il nome di "raccomandazioni". C'è una bella differenza. La referenza impegna la reputazione di chi la fa: se io segnalo una persona per un lavoro e ne decanto le qualità, mi assumo la responsabilità delle mie affermazioni. Se non sono corrispondenti al vero, la mia reputazione scende e le mie successive segnalazioni non avranno peso. Se invece raccomando una persona, chiedo a qualcuno di fare un favore a me, indipendentemente dai meriti di chi è stato raccomandato. Il favore verrà accordato solo se, poi, a mia volta sarò disponibile a ricambiare il favore. E la catena cresce e si intreccia.
Non tutto avviene così in Italia, ovviamente. Ci sono anche segnalazioni corrette e ci sono persone valutate sul merito. Ma questo non è il sistema usuale. D'altro canto, siamo un paese dove la famiglia conta, eccome. Se guardiamo al mondo delle professioni, è giocoforza constatare che i figli seguono le orme dei padri. Ovvia soluzione, si dirà. Uno studio professionale ben avviato è un patrimonio che si passa da padre in figlio. E poi, a forza di frequentare l'ambiente professionale, il figlio acquisisce conoscenze e competenze che lo rendono professionalmente forte. Tutto vero, ma con una massa di professionisti così estesa e con un sistema di ordini che, in alcuni casi, funzionano da circoli chiusi, è difficile per un giovane, senza genitori o amici già nel ramo, poter emergere. Ci riuscirà, se è bravo. Ma, appunto, deve veramente essere bravo. O deve sposare chi già occupa quel ruolo. E il caso non si limita alle professioni. Registi, attori, cantanti, hanno tutti figli predestinati, tanto che dal dopoguerra ci ritroviamo sempre con gli stessi nomi sui manifesti cinematografici, al teatro, in tv, come se il tempo si fosse fermato.
Ma, qualcuno dirà, c'è l'impresa privata. Se non fa valere il merito, fallisce. Vero. Ma è anche vero che il fallimento è in Italia un evento molto raro e giuridicamente difficile. Sicché, prima di fallire, c'è tempo per fare guasti (e arricchirsi comunque). È così che, in un paese dove la proprietà delle imprese è essenzialmente familiare, la gestione passa dai genitori ai figli e ai parenti. Certo, questi poi selezioneranno i dipendenti sulla base del merito (si spera). Ma spesso, nelle aziende familiari, dove ci sono cordate di fratelli e cugini, la cultura prevalente è di tipo relazionale. Ossia si assumono e fanno carriera coloro che sono più fedeli e consenzienti. I quali, peraltro, hanno ambizioni limitate perché sanno di non poter accedere ai vertici, già predestinati a membri della famiglia. Con i quali cercheranno di stabilire relazioni strette per partecipare alle loro fortune. Il merito c'è, ma passa in seconda linea, dopo la relazione. Non bisogna generalizzare. Ci sono aziende familiari che scelgono solo sulla base del merito. Ma troppo spesso vediamo aziende seguire la parabola della famiglia.
La grande impresa potrebbe fare eccezione. Spesso non c'è un socio che controlla tutto. Ci sono i manager che sono selezionati per le loro capacità. Ma anche la cultura manageriale, se non corretta da azionisti lungimiranti ed occhiuti, tende a chiudersi nell'ambito delle relazioni. Le partecipazioni incrociate sono sistemi nei quali i manager si sostengono a vicenda, magari con patti di sindacato. A loro volta, i manager, quando entrano in una azienda, "occupano" tutte le prime posizioni con una loro squadra. Per essere subito attivi ed efficaci, essi dicono. Ma questo modo di agire deprime le professionalità interne e spinge la cultura aziendale verso il conformismo. Si progredisce solo se si fa parte di una squadra. Se si accettano certi condizionamenti. Ancora una volta, si dirà, se le scelte sono errate poi c'è la vendetta del mercato. Si, ma questa tarda a venire e spesso i manager colpevoli (e molti della loro squadra) sono già usciti con qualche ricco bonus retributivo. Ciò che conferma che il merito non sempre paga, ovvero che la relazione paga di più.
Che dire poi della politica dove l'elezione di un deputato non dipende dal voto, ma dalle scelte della segreteria del partito o del capo? Se l'esempio viene dall'alto, come possiamo poi prendercela con la scuola? In realtà, non esiste, una società che si basi tutta sul merito. E d'altra parte bisognerebbe discutere anche su come e chi gestisce la valutazione di merito. Relazioni e parentele hanno un valore che non può essere disconosciuto in nessun paese. L'importante è che esse non soffochino la società e consentano una certa dose di ricambio. E, comunque, chi ha raggiunto posizioni attraverso le relazioni, almeno si sforzi di meritare dopo quello che ha avuto prima.
  CONTINUA ...»

6 Ottobre 2009
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