Il problema è non ridurre la realtà a slogan. Oggi quando si parla di ricerca e innovazione si rischia di usare termini di per sé positivi, ma applicati come slogan appunto a qualsiasi attività abbia a che fare con il lavoro scientifico e tecnologico. È chiaro che nessuna persona di buon senso ha interesse a fermare la ricerca e l'innovazione. Fanno parte del motore della civiltà. Da sempre e in particolar modo in quelle terre che, nutrite dalla cultura giudaico-cristiana, hanno visto il mondo e la vita degli uomini come qualcosa di cui essere attivi responsabili. Nel cristianissimo medioevale si sono gettate le basi della scienza e della tecnologia.
È troppo comodo, oltre che storicamente inesatto, contrapporre, come se fossero slogan, da un lato ricerca e innovazione e dall'altra la Chiesa e i credenti. Non solo la storia dimostra che tanti uomini di fede e religiosi furono e sono al centro di grandi sperimentazioni e di ricerca, ieri come oggi. La genetica stessa prese la mossa da un abate. E mentre la Chiesa anche dolorosamente e sinceramente ha avviato una discussione critica su certi momenti d'incomprensione e di dissidio con la ricerca, gli alfieri della ricerca e dell'innovazione agitati come slogan spesso sembrano dimenticare quante volte tali termini hanno coperto nefandezze e interessi privati e politici.
Occorre avere il coraggio dello stupore e della responsabilità di fronte al reale. Il caso dell'introduzione della pillola Ru486 rende inquieti tutti coloro, non solo credenti, che vedono in tale strumento sofisticato un modo sempre più "lieve" con cui eliminare una vita che, da quando è concepita, comunque lo si voglia vedere è una persona o possibilità di persona. Lasciando alla madre in solitudine (il padre è fatto fuori dal gioco) la responsabilità di stare di fronte all'arrivo di un ospite a cui chiudere la porta. La riduzione della maternità a fatto "privato" nel senso di individualistico.
Non c'è in gioco un "oscuro" dissidio tra le chiare forze della ricerca e dell'innovazione osteggiate da strane credenze. Come se qualcuno che ha fisse morali un po' strampalate e anticheggianti volesse opporle alla luminosa via del futuro. Credenze che, sebbene tollerate, non dovrebbero influire nel pubblico dibattito per arrivare a leggi le più giuste possibili.
È comodo, è banale presentare le cose in questo modo. Banale per chi crede, e un po' anche per chi non crede. Il punto è un altro: si tratta di valutare se davvero la messa a punto e l'utilizzo di questo o altri strumenti lede la vita di qualcuno, e se non sono un modo "comodo" (la ricerca sappiamo serve a render la vita più comoda, anche) per lasciare alle donne una responsabilità che è scomodo condividere. Se il bimbo è un ingombro, ecco il modo più semplice per disfartene. Tutti contenti (tranne il piccolo, forse).
Non c'è in gioco una questione di fede. Ma di lettura della realtà. Della realtà concepito, della realtà madre, della realtà del rapporto tra società e salute. In certi casi le parole possono venirci in aiuto, e occupandomi di poesia, andai a vedere la parola embrione (termine protagonista di questi anni) da dove veniva. Dal greco, e Omero la usa per indicare sia il bambino nato che il nascituro. L'embrione indica di fatto una realtà nata dentro un'altra. Ma non sentirete mai nessuno - nemmeno gli alfieri della ricerca e dell'innovazione - dire: «Mia moglie, la mia donna, aspetta un embrione». Diranno "figlio", anche dopo pochi giorni che lo si attende. Ma destiniamo la parola embrione, o la parola "feto" come fosse più fredda, più distante, per quelle medesime, ugualissime realtà congelate nei bidoni dei laboratori o espulse grazie alla nuova pillola "sviluppata e innovativa". Le differenze di lingua spesso coprono una piccola (o grande) violenza sulla realtà. Per questo, l'innovazione e la ricerca che possono aumentare in qualche modo il tasso di "violenza" sulla realtà e sul fenomeno umano vanno trattate con attenzione, con cautela. Di sicuro senza trionfalismi addobbati con vecchi slogan.