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SCIENZA & POLITICA / Perché gli economisti non hanno visto la recessione?

di Robert Skidelsky

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C'era da aspettarselo che i traumi che l'economia sta vivendo in questo periodo avrebbero messo in discussione la scienza economica. «Perché nessuno ha previsto la crisi?», avrebbe chiesto la regina Elisabetta a un economista. Un seminario della British Academy ha cercato di dare una risposta, e il Financial Times ha rilanciato il dibattito.
La domanda della regina è comprensibile, considerate le arie che si danno gli economisti. Fin dai suoi inizi, nel 18° secolo, la moderna economia si è presentata come disciplina previsionale, affine alle scienze naturali. E dal momento che quello che un anno fa era il futuro include la recessione che stiamo vivendo, è naturale che l'incapacità degli economisti - con qualche eccezione - di prevedere il tracollo imminente abbia screditato le loro pretese scientifiche.
L'economia è nuda, al pari delle altre scienze sociali. È impossibile immaginarsi la regina, per fare un esempio, che tra nove mesi chiede a un eminente politologo: «Perché nessuno mi ha detto che il Labour avrebbe vinto le elezioni?». La sovrana si renderebbe conto che è una previsione che nessun politologo avrebbe potuto fare con sicurezza, neanche studiando fino allo sfinimento i sondaggi presenti e passati.

Ma la domanda della regina era sbagliata perché accettava le pretese profetiche della scienza economica (un aspetto che la distingue da tutte le altre scienze sociali) secondo il loro valore facciale. Karl Popper propose una celebre argomentazione riguardo all'impossibilità di fare previsioni sulle faccende umane: è impossibile prevedere una nuova invenzione perché, se qualcuno fosse in grado di farlo, quel qualcuno l'avrebbe già inventata. Ma è un'obiezione superabile a patto d'ipotizzare un universo stabile e ripetitivo, dove gli agenti razionali fanno un uso efficiente delle informazioni a loro disposizione. In questo contesto, l'incertezza scompare lasciando il posto a un rischio calcolabile. Possono verificarsi scossoni ed errori, ma si annullerebbero a vicenda e mediamente la gente otterrebbe quello che si aspetta. Un'importante implicazione di questa tesi è che il prezzo delle azioni è determinato sempre in modo esatto.

È la base della cosiddetta teoria del mercato efficiente, che domina da anni nel settore dell'economia finanziaria, e che ha spinto i banchieri a fidarsi ciecamente dei loro modelli matematici previsionali, ha spinto i governi e le autorità di regolamentazione a sottovalutare la possibilità di un''mplosione dei mercati finanziari e ha portato a quello che Alan Greenspan (dopo aver lasciato il timone della Federal Reserve) ha chiamato un "underpricing mondiale del rischio".
E ha portato allo screditamento della corrente principale della scienza macroeconomica. La teoria del mercato efficiente è semplicemente un'applicazione della scuola neoclassica, la corrente di pensiero che negli ultimi decenni è andata per la maggiore e che sostiene che un sistema di mercato decentralizzato raggiungerà sempre la piena occupazione.

Ossessionati dalla volontà di estromettere lo stato dalla vita economica, gli economisti di Chicago sostenevano che una popolazione apprenderà e anticiperà qualunque insieme coerente di misure, che dunque risulteranno inefficaci. Dal momento che le persone - includendo apparentemente quel 10% circa di disoccupati - si trovano già nella loro posizione preferita in quanto capaci di effettuare previsioni corrette e aggiustare immediatamente il tiro, le politiche di "stimolo" sono destinate a fallire e a peggiorare ancora di più le cose. Le recessioni, in quest'ottica, sono "ottimali".

Quasi tutti quelli che hanno poca dimestichezza con l'economia neoclassica danno per scontato che John Maynard Keynes abbia demolito queste convinzioni infondate settant'anni fa. Se sono rispuntate fuori non è solo per effetto dell'incapacità delle politiche macroeconomiche keynesiane di prevedere o affrontare la "stagflazione" degli anni 70, ma anche perché riflettono una persistente inclinazione dell'economia a descrivere in modo idealizzato il comportamento umano, quello che Joseph Schumpeter chiamava il "vizio ricardiano" dell'astrazione eccessiva.
Solo immaginando un mondo meccanico di robot che interagiscono fra di loro l'economia si è conquistata il suo status di scienza esatta, previsionale. Ma a che possono servire le sue costruzioni meccaniche, che affondano le radici nella fisica newtoniana, per comprendere le molle che determinano il comportamento umano?

Uno dei contributi più interessanti al dibattito sul sito Ft.com è stata l'argomentazione di chi sosteneva che dopo Keynes gli economisti avrebbero dovuto allineare la propria disciplina alle altre scienze sociali che s'interessano del comportamento umano. Keynes aprì la strada all'economia politica, ma gli economisti seguirono un altro percorso, optando per un programma di ricerca regressivo, mascherato da sofisticati modelli matematici. La situazione attuale ci offre l'occasione per riprovarci.

La ricostruzione della scienza economica deve partire dalle università. Per cominciare, i corsi di laurea in economia devono allargare lo sguardo, prendendo a esempio il motto keynesiano "L'economia è una scienza morale, e non naturale". Oltre alle materie consuete, microeconomia e macroeconomia di base, si devono studiare la storia economica e politica, la storia del pensiero economico, la filosofia morale e politica e la sociologia.

Il peso della componente matematica dev'essere drasticamente limitato (pur consentendo una certa specializzazione nell'ultimo anno). Bisogna tornare alla tradizione del Ppe (politics, philosophy and economics) di Oxford e della laurea in scienze morali di Cambridge.
Oltre a questo, sarebbe proficuo separare gli studi di specializzazione postlaurea di macroeconomia da quelli di microeconomia. I corsi di microeconomia dovrebbero concentrarsi, com'è ora, sull'elaborazione e la sperimentazione di modelli basati su un insieme ristretto di presupposti. Il loro campo d'applicazione riguarda ambiti dove abbiamo una visione affidabile del futuro. La macroeconomia invece è un elemento essenziale dell'arte di governo, e andrebbe sempre insegnata parallelamente alle materie pertinenti a tale arte.

Lo scopo evidente di una riorganizzazione di questo genere è proteggere la scienza macroeconomica dall'intromissione dei metodi e delle consuetudini dei matematici. Solo allargando nel modo descritto il campo d'azione della scienza economica possiamo sperare d'offrire un'istruzione adeguata a persone la cui utilità per la società risiede non solo nell'efficienza matematica, ma anche nella competenza filosofica e politica.

LA DISPUTA
L'atto d'accusa
La professione economica ha fatto quadrato –negli Stati Uniti dove è potentissima e domina molte università, ma anche in Europa – per evitare che la débâcle del 2008 si trasformasse in una perdita di status. Ma è difficile, quando ad esempio gli stessi spesso ingenti patrimoni universitari americani hanno subito perdite del 20-30% applicando le teorie sugli investimenti elaborate dalle loro menti migliori, che il 2008 (e il 2009) passino senza colpo ferire.
- Sembra inevitabile una notevole revisione dei programmi di studio, con molto più spazio alla storia economica, maestra degli errori passati. E dovrebbe alla fine affermarsi una visione in parte diversa dell'economia, non più scienza ma scienza sociale, semi-scienza cioè, come qualsiasi disciplina che studia il comportamento umano.
Detto semplicemente, il successo della teoria delle "aspettative razionali", dei Nobel e delle grandi scuole (Chicago, Harvard, Harvard Business School, Mit e molte altre) è indiscusso dalla fine degli anni 70 e ha due origini. Primo, avere qualcosa di diverso dalle teorie keynesiane che, applicate su larga scala solo con gli anni 60 e non come erroneamente si crede già da Roosevelt (che ignorava Keynes o quasi), si conclusero con la stagflazione degli anni 70. Secondo, dare basi teoriche moderne alla teoria del mercato. Che poteva sbagliare, ma non oltre certi limiti, perché alla fine campo di gioco "razionale" di protagonisti "razionali".
- Da qui a catturare il tutto in formule matematiche sempre più osannate, perché conferivano l'ambita aureola della scientificità, il passo è stato inevitabile. L'errore tuttavia è stato non nei modelli elaborati, non nelle formule, spesso utilissime, ma nell'eccessiva fiducia e nella volontà di trasformare in scienza quella che scienza non è.

DIFESA E CONTRATTACCO
Luigi Zingales
Docente di Finanza alla Graduate School of Business di Chicago
«Accusare gli economisti è come accusare i fisici per il disastro della centrale di Chernobyl: non fu un errore nella teoria della fissione a creare l'incidente nucleare ma irregolarità e leggerezza nella gestione dell'impianto. Politici e regolatori sono i maggiori responsabili della crisi, come ha dimostrato anche il festival di Trento. La ricetta di Skidelsky è un ritorno al passato. Il futuro è in una maggiore integrazione della psicologia nell'economia»

Tito Boeri
Docente di Economia del lavoro all'Università Bocconi di Milano
«Non credo che il problema della scienza economica sia un eccesso di formalismo. Gli economisti migliori uniscono conoscenza dell'economia reale e dei dettagli istituzionali a una solida preparazione formale. Skidelsky pare ignorare la letteratura sulle bolle nei prezzi di case e corsi azionari, sugli incentivi distorti dei bonus ai manager e sui comportamenti non razionali, ai confini tra psicologia ed economia. È questa la via per capire. Anacronistico tornare a quanto si faceva a Cambridge 70 anni fa. Non stupisce che sia il biografo di Keynes a proporlo» Luigi Zingales Docente di Finanza alla Graduate School of Business di Chicago Tito Boeri Docente di Economia del lavoro all'Università Bocconi di Milano

Il libro di Robert Skidelsky «Keynes: The Return of the Master» uscirà a settembre
(Traduzione di Fabio Galimberti)

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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