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Lega, nessuno e centomila

di Giuseppe Berta

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7 aprile 2010

Il successo elettorale della Lega Nord e la nuova geografia del potere locale che disegna mettono alla prova la capacità di analisi delle scienze sociali, sfidate a rendere conto di un cambiamento che chiama direttamente in causa i modelli di interpretazione dell'Italia contemporanea. Non soltanto nel senso, piuttosto ovvio, che le scienze sociali devono dimostrare di riuscire nel compito di spiegare i mutamenti nella sfera politica coniugandoli con quelli all'interno della società, bensì anche nel senso che l'ascesa elettorale della Lega è stata spesso utilizzata come una testimonianza tra le più significative della metamorfosi avvenuta nel tessuto connettivo della nazione. Il voto per la Lega appare dunque, al tempo stesso, sia come l'indicatore di un processo di differenziazione operatosi entro la società italiana sia come lo sbocco politico di una trasformazione in atto da decenni.

È interessante leggere in questa prospettiva i commenti ai risultati delle ultime elezioni formulati da studiosi tra i più assidui e sistematici della realtà italiana, che nell'esito del voto hanno ravvisato una conferma delle loro analisi. Per Luca Ricolfi (sulla Stampa del 1° aprile) la nuova geografia politica emersa dalle elezioni di fine marzo rivela che «il tasso di penetrazione della Lega è strettamente correlato al ruolo economico dei territori». La Lega si impone in quelle regioni che versano allo stato più di quanto ricevano in erogazioni e trasferimenti. Sarebbe perciò in gioco, secondo Ricolfi, piuttosto che una generica «questione settentrionale» una più specifica «questione padana»: sono infatti le regioni che si affacciano sul Po ad aver maggiormente da guadagnare in una logica di federalismo fiscale qual è quella propugnata dalla Lega. Le due regioni governate d'ora in avanti da presidenti leghisti, Veneto e Piemonte, sono in naturale sintonia, oltre che con la Lombardia, con l'Emilia, che pure è governata dal centro-sinistra, mentre non lo sono affatto con la Liguria, che riceve dallo stato più di quanto non dia ed è quindi più difficile da conquistare per il partito di Bossi. Ricolfi ne deduce che in futuro la Lega avrà le sue chance migliori proprio in Emilia.

Questa lettura è imperniata sulla distinzione, cara a Ricolfi che l'ha ripresa e sviluppata nel suo ultimo libro (Il sacco del Nord, Guerini e Associati), fra le aree dove si concentrano le attività produttive e quelle dove predominano posizioni di rendita. Ne consegue che per lui il suffragio leghista resta condizionato dal tema della protesta fiscale, motivazione predominante di un comportamento elettorale ispirato soprattutto dalla volontà di modificare i flussi di trasferimento della ricchezza.

Diversa e distante l'interpretazione offerta da Ilvo Diamanti, il primo studioso a misurarsi, già vent'anni fa, con la Lega. Per Diamanti (sulla Repubblica del 31 marzo), quello di Bossi è un «partito di governo e di rivendicazione - se non più di lotta». Si sbaglia a credere ancora alla natura secessionista della Lega: «Chi pensa a una secessione (magari invisibile) della Padania non ha capito. Oggi la Lega è forte nel Nord perché governa a Roma. E viceversa». Autore di un notissimo saggio sulle Mappe dell'Italia politica (il Mulino), Diamanti identifica nella Lega il soggetto erede della tradizione del partito organizzato novecentesco, in grado di «toccare le corde di una società spaesata, dove la politica e la vita un tempo erano sovrapposte. Dove la scomparsa dei vecchi partiti ha lasciato un senso di vuoto». In fondo, a ben guardare, la geografia politica dell'Italia tradisce per Diamanti una notevole costanza: cambiano le appartenenze formali, ma i confini fra le aree moderate e quelle a prevalenza della sinistra si confermano nel tempo, seppure con sintomi di erosione delle seconde.

Anche per Guido Crainz, uno degli storici che si è più soffermato sull'Italia repubblicana (si veda, da ultimo, il suo Autobiografia di una repubblica, Donzelli, in cui fin dal titolo riecheggia un accento gobettiano), bisogna affondare lo sguardo nel passato per comprendere le dinamiche elettorali e per «riflettere sulle cause più lontane di questo esito (La Repubblica, 1° aprile). Ma, secondo lui, occorre fare i conti «con il consolidarsi di settori sempre più corposi di "società incivile", la cui incubazione prese corpo negli anni Ottanta e che poterono confluire nella "idea di Italia" di cui Berlusconi è stato alfiere». Le considerazioni di Crainz prendono una piega amara, sia quando lamenta che «dal nostro orizzonte sembra scomparso il futuro», sia quando invita a interrogarsi sul «calante senso delle regole e delle istituzioni» degli italiani.

Siamo evidentemente di fronte a una lettura che segue una traccia culturale, più influenzata da Pasolini e dalla sua immagine della mutazione antropologica dell'Italia che dalle ricerche delle scienze sociali, laddove quella di Ricolfi si rifà a una matrice economica e quella di Diamanti all'insediamento territoriale della politica. Per Crainz, invece, se Berlusconi, Bossi e tutto il loro ambiente non sono affatto estranei alla nostra vicenda nazionale e se anzi, elezione dopo elezione, si radicano di più, ne consegue di necessità che anche gli italiani hanno progressivamente tralignato. Di qui il fascino di Pasolini e la tentazione di trasformare la sua intuizione circa il cambiamento dell'antropologia della nostra gente in un paradigma di giudizio storico: Berlusconi resiste e dura al governo perché rappresenta, interpreta e consolida la degenerazione del carattere degli italiani.

  CONTINUA ...»

7 aprile 2010
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