Le conseguenze economiche di Alan Greenspan sono state una politica monetaria troppo accomodante troppo a lungo e la formazione di bolle speculative che alla fine hanno portato alla crisi finanziaria.
Ora c'è il rischio che la Federal Reserve sotto il successore di Greenspan, Ben Bernanke, stia ripetendo gli stessi errori. Tassi d'interesse vicini allo zero per un periodo troppo lungo (dal dicembre 2008 e, per ora, senza cambiamenti in vista) e liquidità abbondante per il sistema finanziario non possono che portare allo scoppio dell'inflazione. Almeno così la pensano i monetaristi Usa, una corrente di pensiero economico che aveva perso visibilità negli anni della Grande Moderazione e l'ha ritrovata con la crisi. I suoi bastioni sono lo Shadow Open Market Committee, un gruppo di accademici che funge da "consiglio ombra" della Fed, e, storicamente, centri come la Carnegie-Mellon.
Ma i timori di un possibile ritorno dell'inflazione sono vivi anche all'interno della banca centrale: se ne fanno portavoce il presidente della Fed di Filadelfia, Charles Prosser, e quello della Kansas City Fed, Thomas Hoenig. Attenzione, dicono, a mantenere per un "periodo esteso", secondo la formula della stessa Fed, una politica monetaria troppo lassa sulla base dell'inflazione attuale, perché i dati sono distorti dal crollo dei prezzi delle case. Altri economisti, non solo di fede monetarista, osservano con preoccupazione il rimbalzo delle quotazioni delle materie prime come segnale di inflazione in arrivo.
Queste argomentazioni per ora, a quanto pare, non convincono Bernanke, né la maggioranza dei membri del "vero" Open Market Committee, l'organo della Fed che decide la politica monetaria. Anzi, all'interno della Fed c'è chi ritiene che si stia andando nella direzione opposta, cioè di una disinflazione. Uno degli indicatori che la banca centrale Usa segue più da vicino è il cosiddetto indice dei prezzi delle spese per consumi personali (Pcepi), in particolare nella sua versione "core", o di base, depurata dei prezzi degli alimentari e dell'energia, considerati troppo volatili per essere indicativi di tendenze di lungo periodo. L'inflazione così misurata, sostengono tre economisti della Fed (fra cui due italiani, Stefano Eusepi e Andrea Tambalotti, che fanno parte del nutrito contingente di nostri connazionali alla New York Fed), in un paper pubblicato lunedì scorso, è scesa dal 2,7% dell'agosto 2008, quindi subito prima del collasso della Lehman, all'1,3% di febbraio 2010. La decelerazione dei prezzi delle case ha senza dubbio avuto un ruolo, sostiene lo stesso studio, ma abbastanza piccolo. La disinflazione è assai più diffusa nell'economia, che continua a soffrire di ampi margini di capacità inutilizzata, e anzi starebbe accelerando.
Con questa pezza d'appoggio, la Fed di Bernanke manterrà probabilmente la rotta attuale. Con buona pace del revival dei monetaristi. Che giurano che sarà il tempo a dar loro ragione. Come è avvenuto con Greenspan.