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Vietare il velo per legge può dare buoni risultati

di Khaled Fouad Allam

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7 aprile 2010

Molti paesi europei si apprestano a legiferare sulla questione del velo islamico; tra questi il Belgio, che ha già votato per il divieto di indossarlo in pubblico. Il governo francese, che è stato il primo a porre il problema del velo integrale (burqa), si è visto rispondere dal Consiglio di stato di affrontare il problema con più prudenza e di non vietarlo totalmente. Il Italia la questione approderà tra poco in Parlamento.

La disparità nel trattamento giuridico della questione del velo tra i diversi paesi europei dimostra la complessità e la difficoltà di trovare una soluzione definitiva alla questione. In effetti, il trattamento giuridico del velo - nella sua ipotetica accezione di simbolo religioso dell'islam - pone in contraddizione libertà pubblica e libertà religiosa: come non far apparire il divieto del velo come una legge contro l'islam e le popolazioni musulmane? Sul piano dei protagonisti, il paesaggio è molto diviso: alcuni, come ad esempio Tarek Ramadan, affermano che una legge in proposito sarebbe controproducente, e che la migliore soluzione sia quella di un lavoro sociale e pedagogico presso le popolazioni musulmane. Ma il lavoro pedagogico è lento, richiede tempo, un'organizzazione capillare e la formazione del personale di culto che oggi è quasi inesistente in Europa; mentre la questione è urgente, perché si assiste alla crescita esponenziale dell'uso del burqa nelle grandi agglomerazioni urbane europee.

Il velo suscita dunque una grande questione per l'Europa, perché pone il problema della riformulazione dell'assetto democratico; ed è su questa base che si deve ragionare. Perché la democrazia non consiste soltanto nel diritto di voto e nell'alternanza tra i diversi segmenti politici: uno dei fondamenti della democrazia moderna è l'eguaglianza, non limitata alla sfera economica ma estesa ai rapporti di genere. Almeno su questo punto gli esperti sono d'accordo: il velo non è un simbolo religioso. Il corpus dei testi dell'islam - il Corano e la Sunna (tradizione profetica) - non lo menziona mai in tal senso.

Quello del velo è un codice culturale che ho vissuto personalmente: a casa di mio nonno uomini e donne mangiavano in luoghi separati; e quando le donne dovevano uscire, quasi come un riflesso condizionato, indossavano un velo bianco chiamato hayk. Da bambino non capivo il significato di tutto ciò, lo accettavo passivamente perché è proprio di una tradizione culturale il fatto di ripetersi inesorabilmente nel tempo. Solo in seguito, con gli anni, capii che il velo rappresentava una frontiera: non solo una frontiera tra pubblico e privato, ma anche una frontiera che incarnava un rapporto di dominazione, il potere degli uomini sulle donne.

Nella cultura patriarcale, come ci ha insegnato Germaine Tillion nel suo saggio L'harem et les cousins, i rapporti di dominazione si basano sulla paura, e il contatto con il mondo esterno rappresenta la possibilità di perdere il controllo sull'universo femminile. Il controllo sulla sessualità è dunque di primaria importanza: la donna deve nascondersi per non suscitare il desiderio. Mantenere l'uso del velo significa dunque riprodurre la catena perversa di un rapporto di dominazione, un rapporto che spezza il fondamento della democrazia, vale a dire l'eguaglianza tra gli esseri umani al di là del sesso e dell'origine etnica.

In alcuni casi il diritto può avere una virtù pedagogica, può aiutare i popoli a cambiare, ad adattarsi alle condizioni socioculturali di un altro luogo: perché la democrazia richiede il vivere insieme, e il diritto è uno strumento per costruire il vivere insieme. Operò in questo senso, oltre cinquant'anni fa, un politico tunisino: nel 1956 l'allora presidente Habib Burghiba, richiamandosi ad un principio e dovere del l'islam - l'igtihad - vietò il matrimonio poligamico promulgando un legge in tal senso. All'epoca egli infranse un tabù, aprendo alle donne del suo paese uno spazio di libertà e una nuova condizione di eguaglianza.

7 aprile 2010
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