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IL PUNTO / La «regia» leghista non va presa alla lettera, ma nella sostanza

di Stefano Folli

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7 aprile 2010

Dietro la polemica sulla «regia delle riforme», rivendicata alla Lega in un'intervista di Roberto Maroni al Corriere della Sera, c'è un punto cruciale. Lo stesso che ieri sera aleggiava sulla cena di Arcore fra Berlusconi e Bossi. Non è una mera esigenza di «visibilità» del Carroccio, come dicono ironici alcuni esponenti del Pdl, ad esempio Gasparri. D'altra parte, non è nemmeno il preannuncio di un terremoto all'interno del centrodestra, come spera, illudendosi, qualcuno dalle parti del centrosinistra.

In realtà stiamo assistendo al realizzarsi di quello scenario post-elettorale inevitabile dato il risultato delle urne. Non un ricatto a Berlusconi, bensì l'esordio della «nuova» Lega in un ruolo nazionale. È chiaro, in altri termini, che la lealtà di Bossi al presidente del Consiglio non significa acquiescenza o addirittura delega in bianco.

La Lega ritiene, non senza motivo, di rappresentare il Nord, il grande territorio dove il Pdl - parole del capo - «è appena riuscito a reggere davanti al nostro tsunami». Quindi vuole seguire passo passo, in prima persona e non attraverso mediazioni, l'itinerario riformatore. Contribuendo a fissarne l'agenda e le priorità. Definendo, o meglio guidando il confronto parlamentare con l'opposizione. Ne deriva che il termine «regia» non va preso alla lettera, visto che il compito del regista spetta ovviamente al premier. Ma nella sostanza esso indica l'intenzione leghista di non restare in secondo piano e di incalzare Berlusconi da subito. Non è questione di conservare il ministero dell'Agricoltura o di rivendicare il municipio di Milano: questi sono aspetti, diciamo così, secondari su cui Bossi è abile a spargere un po' di fumo per coprire i suoi veri obiettivi. Che riguardano il merito delle riforme, il loro percorso e quindi il rapporto con l'opposizione.

Soprattutto sull'ultimo punto il vecchio combattente non si sente di lasciare mano libera a Berlusconi. Per due ragioni. Primo, è nota l'estrema diffidenza berlusconiana verso qualsiasi intesa con la sinistra: tanto è vero che il premier non rinuncia a tenere bene in vista la bandiera della legge sulle intercettazioni, ovvero un argomento scabroso che certo non facilita il dialogo. Secondo, Berlusconi resta, come è noto, la figura con cui l'opposizione ha più difficoltà ad affrontare una discussione di merito. Sul presidenzialismo e sul resto.

Questo significa che gli interventi sia di Maroni sia di Calderoli vanno visti come altrettanti segnali al centrosinistra, affinché sappia che nella maggioranza c'è chi sta tessendo una tela che dovrà comprendere i vari aspetti del federalismo, a cominciare da quello fiscale, e il modo di rafforzare il governo centrale. L'ipotesi «francese» (semi-presidenzialismo) discussa a suo tempo dalla commissione D'Alema è un chiaro invito alla controparte. Idem per il tentativo di collocare la riforma della giustizia in un contesto che non sia distruttivo come il colpo di pistola di Sarajevo.

È vero peraltro che si profila uno spazio centrale per il presidente della Camera. Nella triangolazione fra maggioranza, opposizione e Quirinale, Fini sarà determinante. Ecco perchè non va presa sul serio la bufera che ha investito la fondazione finiana Farefuturo, di cui è nota l'autonomia. Anche l'affermazione secondo cui «non possiamo morire leghisti» non va interpretata come un atto di guerra contro il Carroccio. Al contrario, lo scenario impone che Bossi e il co-fondatore del Pdl s'intendano.

7 aprile 2010
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