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Software libri e lauree scommessa per l'Italia

di Pietro Reichlin

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7 aprile 2010

L'Italia è un paese anomalo: appartiene al club delle economie più ricche dell'Occidente, ma soffre di molti problemi che affliggono le nazioni meno avanzate e di più recente industrializzazione. I paesi relativamente poveri crescono di più perché si giovano dei forti guadagni di produttività che derivano dalla crescita del capitale e della forza lavoro nell'industria. I paesi relativamente ricchi, viceversa, crescono perché hanno una forza lavoro più istruita e sono in grado di far avanzare la frontiera tecnologica. Si ha la netta impressione che il nostro paese non sia nelle condizioni di trarre vantaggio né dalla sua relativa arretratezza (testimoniata dalla presenza di vaste aree ancora poco sviluppate), né dalla sua relativa modernità.

I problemi principali che limitano la nostra capacità di crescita sono noti. In primo luogo, la forza lavoro è poco istruita. La percentuale di popolazione tra i 25 e i 64 anni con almeno un diploma di scuola superiore è di circa il 52%, contro l'84% della Germania e il 69% della Francia. Inoltre, percentuali enormi di giovani, donne e anziani sono inattive. Infine, la dimensione media delle imprese è troppo piccola e la specializzazione produttiva è orientata verso prodotti a basso contenuto tecnologico.

Questi problemi non sono mai stati affrontati seriamente dalle nostre classi dirigenti. Il sistema della scuola e della formazione superiore è obsoleto e di bassa qualità, il sistema fiscale è eccessivamente concentrato sul lavoro e sull'impresa, e i mercati sono rigidi e poco competitivi. Le recenti liberalizzazioni del mercato del lavoro hanno contribuito al contenimento della disoccupazione ma non hanno determinato la formazione di un sistema salariale che compensi adeguatamente la produttività e la competenza degli individui. L'Italia è forse l'unico paese dell'Ocse in cui il livello di istruzione non contribuisce a incrementare il reddito individuale, mentre quest'ultimo cresce per effetto di meccanismi istituzionali basati quasi esclusivamente sull'anzianità di servizio.

Infine, il sistema degli ammortizzatori sociali rimane concentrato sulla previdenza e il lavoro dipendente delle grandi imprese, privando di adeguata copertura coloro che svolgono attività autonome o hanno contratti atipici. Spesso questi ultimi sono individui giovani e relativamente istruiti, cioè i soggetti che possono meglio contribuire alla crescita economica del paese. I rischi eccessivi che essi corrono nel corso della propria vita professionale limitano gli investimenti, la formazione professionale e l'innovazione.

Barba Navaretti e Tabellini (sul Sole 24 Ore del 2 aprile) hanno osservato che il ritorno alla crescita potrebbe derivare da una riallocazione del lavoro e del capitale. In effetti, studi recenti sulle economie dei maggiori paesi industrializzati mostrano forti differenziali di produttività (fino al 100%) tra impianti che appartengono alla stessa industria e che utilizzano gli stessi input. Ciò suggerisce che si possano ottenere notevoli aumenti di produttività dalla rimozione delle rendite di posizione, degli ostacoli alla concorrenza e alla mobilità dei fattori produttivi. In molti casi, e specialmente in Italia, queste riallocazioni sono impedite da politiche economiche discrezionali, troppo attente ai vantaggi elettorali e ai poteri politici locali, ma anche da un mercato del lavoro che coniuga una scarsa copertura assicurativa con alti costi di uscita.

Questa diagnosi è generalmente condivisa, ma ciò non basta a risolvere i problemi. Le politiche correttive comportano costi politici non irrilevanti. Ad esempio, il potenziamento del sistema universitario potrebbe richiedere un maggior contributo finanziario delle famiglie e la chiusura di molte sedi. La crescita dell'occupazione e il rafforzamento dei settori tecnologicamente avanzati potrebbero determinare un aumento della dispersione salariale e della mobilità del lavoro (come avvenuto nei paesi anglosassoni). Più in generale, l'apertura dei mercati e la razionalizzazione del sistema produttivo comportano maggiori rischi nell'immediato, anche se il progresso tecnologico e la crescita dimensionale delle imprese dovrebbero portare maggiore stabilità nel futuro.

Molti elementi suggeriscono che gli italiani non siano desiderosi di affrontare questi cambiamenti. Il progressivo invecchiamento della popolazione riduce i vantaggi individuali che derivano dagli investimenti in capitale umano e dalla trasformazione degli ammortizzatori sociali. Il successo elettorale della Lega Nord dimostra un desiderio diffuso di aumentare il peso dei poteri locali e causerà un'accelerazione del decentramento fiscale e amministrativo. Questo processo può portare vantaggi notevoli sul piano dell'efficienza della pubblica amministrazione e della riduzione degli sprechi. Se fosse male interpretato, tuttavia, potrebbe anche determinare forme di protezionismo, frenando la concorrenza e la mobilità geografica dei fattori produttivi. Nei prossimi anni si vedrà se la nostra classe dirigente saprà fare scelte responsabili o aderire alle pressioni più conservatrici della società.

7 aprile 2010
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