A lla conferenza sul clima di Copenhagen, da oggi, si lavora. Si lavora su molti tavoli. Sui contenuti e sulla forma giuridica dell'intesa. Ma soprattutto si devono sciogliere i nodi che dietro i mille tecnicismi nascondono la sostanza politica di questa sfida.
Ci sono più consapevolezza e responsabilità tra i leader mondiali. Copenhagen rappresenta un'occasione. Una partita che si vince o si perde tutti insieme.
Da molti anni un appuntamento internazionale non era circondato da aspettative e attese come è accaduto per la Conferenza sul clima che si apre oggi a Copenhagen. Da oggi, quindi, si lavora. Si lavora su molti tavoli: sui contenuti e sulla forma giuridica dell'intesa; e si devono sciogliere i nodi che dietro il tecnicismo nascondono la sostanza politica di questa sfida.
Perché io credo che il grande potenziale della Conferenza stia proprio nella consapevolezza di responsabilità che via via è maturata da parte di tutti i leader mondiali. Copenhagen è l'occasione non tanto e non solo per riscrivere le regole sulle emissioni dei gas serra, ma anche quella per rifondare le regole dei rapporti fra paesi industrializzati, paesi emergenti e paesi poveri e costruire su queste nuove regole un nuovo modello di sviluppo ecosostenibile. Un modello che non veda la tutela dell'ambiente come un limite, un freno alla crescita, ma indichi nella green economy un paradigma capace di creare opportunità per le imprese e nuove occasioni di lavoro.
La posta in gioco è altissima sia dal punto di vista ambientale che da quello politico-economico. Ma è una partita si vince o si perde tutti assieme.
Io credo che i dati del problema, depurati da propaganda e ansie di visibilità, siano noti. C'è un occidente che ha molto inquinato e che è cresciuto su un equilibrio iniquo in cui una parte fortunata del mondo consumava gran parte delle risorse del pianeta. Questo schema è andato in crisi a causa della crescita dei giganti asiatici, Cina e India in primo luogo, che hanno strumenti e risorse per autoalimentare una crescita enorme rispetto ai parametri occidentali. Questo sviluppo ha portato la Cina a essere il primo emettitore di CO2 al mondo e l'India a diventare il sesto, con prospettive che rischiano di rendere più che doppie in 20 anni le emissioni globali di gas serra. Sul solco dei grandi paesi asiatici si muovono altri "emergenti" come Messico, Sudafrica, Brasile, Corea.
Se si vuole contenere entro 2 gradi l'aumento della temperatura mondiale da qui al 2050 come deciso dai 20 leader del mondo al G8 dell'Aquila è necessario prevedere nel medio periodo un rallentamento sostanziale nella corsa alle emissioni di questi paesi, altrimenti qualsiasi misura di taglio della CO2 in occidente, anche il più drastico, sarà vano.
La questione è delicata e squisitamente politica. Occorre trovare un equilibrio che, contenendo le emissioni globali entro i limiti indicati dall'Ipcc, il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici, consenta ai paesi emergenti di proseguire il loro sviluppo e ai paesi del terzo mondo di attuare da un lato misure di adattamento ai cambiamenti climatici e dall'altro perseguire una crescita "low-carbon". Le affermazioni degli ultimi giorni di cinesi e indiani vanno lette proprio in questo senso: c'è una disponibilità a intervenire sulla crescita di emissioni in relazione al Pil. Ciò non significa disponibilità al taglio delle emissioni tout court come fatto dall'Europa e annunciato dagli Usa ma bensì un'attenuazione delle emissioni in presenza di una crescita economica che i governi intendono continuare a promuovere e che per essere "sostenibile" dovrà essere supportata da impegni finanziari dell'occidente e dal trasferimento delle tecnologie a basse emissioni dei paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo.
In questo quadro complesso si inserisce la posizione americana che con il Presidente Obama ha segnato una svolta strategica in favore della lotta ai cambiamenti climatici. Il Congresso ha approvato una legge che punta entro il 2020 a ridurre le emissioni del 17% rispetto al 2005 (l'Europa entro il 2020 le taglierà del 20% ma rispetto al 1990, l'impegno Usa vale circa il 5% di riduzione rispetto al 1990). Ma il Senato di Washington non ha ancora avviato l'esame della legge e quindi Obama non potrà sottoscrivere a Copenaghen accordi "impegnativi".
Per questi motivi si punta a un'intesa che sia "politicamente vincolante", un accordo che costituisca la cornice condivisa all'interno della quale nel corso del 2010 calare impegni precisi secondo il principio delle "responsabilità comuni ma differenziate", sancito nella conferenza di Rio de Janeiro del 1992.
Questo risultato sarebbe una vittoria storica della comunità internazionale perché, a differenza di Kyoto, impegnerebbe tutti i paesi a uno sforzo globale per il clima. L'Italia a Copenaghen profonderà il massimo impegno perché a questo risultato si possa giungere. Abbiamo vissuto il 2008 da protagonisti segnando con il G8 ambiente e il G8 all'Aquila importanti tappe di avvicinamento alla Conferenza Onu, speriamo di potere, tra due settimane, condividere, con tutti i paesi del mondo, il successo in questa battaglia.