Il patto di stabilità interno nasce come patto tra parti che condividono un traguardo strategico per il sistema-paese: mantenere i conti dello Stato entro i limiti stabiliti dalla Ue. Un accordo nobile, a cui devono tendere in primo luogo lo Stato, gli enti locali e gli altri operatori pubblici, tanto più che, per l'Italia, essere protetti dall'euro e dalla Comunità è una importante ciambella di salvataggio, soprattutto nelle tempeste finanziarie e valutarie. Questa è la filosofia, su cui è difficile trovarsi in dissenso. Ma diverso è come tutto ciò si è tradotto in pratica.
Anzitutto il "patto" non c'è mai stato, ma si è assistito a una totale asimmetria informativa con lo Stato che comunica la cifra di una manovra che per gli enti locali rischia di essere incomprensibile. Da qui uno strano gioco tra le parti, fatto di richieste e di concessioni che, per lo più, tutto favoriscono fuorché il buongoverno della spesa pubblica.
Per anni alla faccia "cattiva" del patto sono corrisposte deroghe più o meno concertate o tollerate. Strade poco convincenti, certo, perché a queste è corrisposta una sorta di «tolleranza zero» per i "meno furbi" che rispettano il patto» e il proliferare di società, istituzioni e organismi utili solo a eludere i vincoli, generando sprechi. Qualcosa andava dunque fatto, e avere dettato sanzioni severe e l'impegno a mantenerle è un segnale di moralizzazione atteso da tempo, così come lo sforzo di chiudere sempre di più il patto ai meccanismi elusivi. Tutto ciò, però, non può prescindere dalle esigenze del sistema-paese. È del tutto controproducente, ad esempio, che le risorse nelle casse di enti locali e regioni non vengano liberate per pagare creditori e realizzare investimenti. A un patto che disincentiva comportamenti corretti e ostacola la ripresa economica occorre mettere rimedio.
Ancora, bisogna tenere conto dell'evidenza empirica. Nel 2009 è avvenuto un fatto nuovo e allarmante: alcuni importanti comuni del Nord, che hanno fatto di tutto per rispettare il patto, hanno dovuto gettare la spugna e arrendersi. Colpa loro, si dirà, paghino pegno i loro amministratori, con il taglio dei compensi e, ahimé, i loro territori, con il blocco degli investimenti (chi non rispetta il patto non può prendere denaro a prestito) e con la riduzione dei servizi ai cittadini (un'altra sanzione è il blocco delle assunzioni). In verità non è così. Anzitutto è ragionevole pensare che, visti i flebili controlli di natura sostanziale, siano più veritiere le dichiarazioni di quei comuni lombardi che non quelle di altri. Oltre a ciò, se già nel 2009 molti enti medio-grandi sono usciti dai limiti del patto dobbiamo chiederci cosa accadrà, con i vincoli più stringenti previsti per il 2010, nel paese nel suo complesso? Facile prevedere che saranno moltissimi gli enti locali che dovranno arrendersi di fronte a obiettivi impossibili, rinunciando a quello sforzo di graduale miglioramento che è invece necessario.
C'è un principio che queste regole sembrano ignorare, ed è quello di realtà. Se molti comuni sani sono ormai fuori dalle regole del patto questo vuol dire che sono le regole a essere sbagliate. E ci pare che non sia il caso, in un momento di tiepida ripresa, bloccare quel motore dell'economia che sono comuni e province. Occorre riflettere con attenzione sulle conseguenze di quello che si sta scatenando. E tornare sui propri passi, in certi casi, non è un segno di debolezza ma solo di buon senso.