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IL PUNTO / Atene cambia le priorità della politica e la «congiura» si esaurisce

di Stefano Folli

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7 Maggio 2010

Sullo sfondo del dramma greco, la «lunga, grande guerra dell'euro», come la definisce Tremonti parafrasando Churchill, è un fattore in grado di sconvolgere anche la politica italiana. Almeno nel senso di imporre a tutti, maggioranza e opposizione, un cambiamento di prospettiva. Forse un salto di qualità o un esame di maturità.
All'improvviso sembrano meschine e provinciali le solite beghe domestiche. I richiami retorici alle riforme che non saranno mai fatte. Gli eterni litigi con la magistratura. La discutibile centralità di un provvedimento controverso come la legge anti-intercettazioni, voluto proprio nel momento in cui emergono le nuove collusioni tra affari e politica.
Forse non è un caso che ieri alla Camera a parlare della Grecia ci fosse il ministro dell'Economia e non il presidente del Consiglio. E nelle parole di Tremonti, accanto alla garanzia che i conti pubblici italiani sono solidi (nonostante le agenzie di rating), si avvertiva la cura di evitare un certo ottimismo di maniera. Non si faceva alcuno sforzo per occultare la gravità dell'ora.
Al tempo stesso le cronache narrano di un paese in cui vari esponenti della classe di governo sono accusati o sospettati di comportamenti poco trasparenti, a dir poco. Ma raccontano anche, queste stesse cronache, di un premier forse per la prima volta in difficoltà nel predisporre la controffensiva. In passato il meccanismo non aveva mai fatto cilecca. Secondo uno schema ben collaudato: da un lato le inchieste giudiziarie, dall'altro l'immediato attacco ai magistrati, accusati di «complottare» contro il governo in carica per destabilizzarlo.
Stavolta Berlusconi ha dovuto circoscrivere e precisare la sua reazione. Il suo primo impulso, dopo i casi di Scajola e Verdini (peraltro diversi tra loro), era stato quello di denunciare la «congiura». Come sempre. Ma la maggioranza non lo ha seguito. Fini e Bossi hanno eccepito e ieri il presidente del Consiglio ha usato tutt'altro registro, riferendosi in modo più generico ad alcuni «magistrati politicizzati».
Risulta chiaro che la Lega e il segmento del Pdl vicino a Fini non gradiscono una nuova crociata contro il potere giudiziario. Non ora, almeno. Ne avvertono tutta l'incongruità, nel momento in cui l'attenzione degli italiani si rivolge in modo così drammatico ai rischi che insidiano la stabilità del sistema finanziario.
Si dimostra, del resto, che l'influenza del presidente della Camera nel dibattito pubblico non si misura solo dal numero dei suoi seguaci. Che sono pochi, probabilmente: non sufficienti a mettere in crisi il governo. Ma Fini occupa una posizione istituzionale che gli permette di rivolgersi con efficacia all'opinione pubblica. Ed è quello che accade con frequenza sempre più ravvicinata.
Quanto alla Lega, Bossi sostiene senza dubbio Berlusconi ed è attento a tamponare le divergenze nella maggioranza. Ma al tempo stesso agisce in modo che sia ben chiara l'autonomia della Lega, che non deve apparire mai un «partito satellite» del premier. Per cui il Carroccio non perde occasione di segnalare che la sua priorità è il federalismo, non certo il regolamento dei conti con la magistratura. E il rapporto personale tra Bossi e Tremonti fa il resto: nel senso che aiuta il partito leghista a restare ancorato alla realtà economica. Per sfuggire a quel tanto di logoramento che il governo comincia ad accusare.

7 Maggio 2010
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