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NODI DELLA POLITICA / Il leader ci mette (solo) la faccia

di Gabriele Pedullà

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7 marzo 2010


Pochi fenomeni sembrano caratterizzare il nostro tempo quanto l'irresistibile avanzata del populismo. Si tratta di una mutazione radicale, che investe i territori più diversi, dal cinema alla letteratura, ma che si manifesta in forme particolarmente devastanti nella vita politica.
Abbiamo a che fare con un trend non solo italiano, e anche qui piuttosto generalizzato. Due i fattori scatenanti. Il primo è la crisi e la scomparsa dei partiti di massa. I grandi partiti, con i loro giornali e le loro sezioni radicate nel territorio, avevano assicurato una costante comunicazione nelle due direzioni, dal gruppo dirigente alla base e dalla base al gruppo dirigente. Un piccolo numero di funzionari scelti attraverso un lento processo di selezione elaborava, spesso con il sostegno di un gruppo altrettanto ristretto di intellettuali, la linea ufficiale, e la macchina propagandistica si occupava di diffondere giudizi e proposte in tutti gli strati della società. Naturalmente c'era la possibilità che il flusso s'invertisse: la forza dei partiti di massa stava anche nel saper accogliere le suggestioni che venivano dai propri militanti. È solo in questo modo che - tanto per fare due esempi decisivi per la nostra storia - il Pci ha "costituzionalizzato" le speranze rivoluzionarie dei suoi iscritti e la Dc ha contenuto l'insofferenza di un elettorato su posizioni spesso più conservatrici di quelle che venivano espresse in parlamento dai suoi rappresentanti.
Il secondo fattore di cambiamento è stato il progressivo irrompere dei mass media nella comunicazione politica. Davanti a una telecamera sono diventate di colpo determinanti una serie di virtù sino a pochi decenni fa trascurabili, dall'avvenenza fisica alla velocità della replica, sino alla generica capacità d'ispirare simpatia. Ma è cambiato soprattutto il meccanismo attraverso cui i tele-cittadini aderiscono ora alle proposte politiche dei diversi schieramenti: più sulla base di un'identificazione con colui che parla che a partire da una reale valutazione delle sue analisi. Ti voto perché sono come te o perché vorrei essere come te.
La tv ha avvicinato (o finge di avere avvicinato) i leader ai loro elettori, e questa improvvisa aria d'intimità premia innanzitutto coloro che non rifiutano ma assecondano il gioco del rispecchiamento. In conseguenza di questa mutazione epocale, per cui i politici cercano di assomigliare sempre di più a quanti dovranno eleggerli, anche la lingua della politica sta evolvendo.
Se nessun leader italiano è stato ancora scoperto come Tony Blair a farsi insegnare da un personal trainer come liberarsi della propria pronuncia perfetta e imitare nell'intonazione le sgrammaticature di quanti non hanno studiato a Eaton o a Oxford, il trend generale, inaugurato da Bossi e Berlusconi, appare ben visibile anche da noi. Le barzellette di Berlusconi, Casini e Rutelli che si tolgono la cravatta, Bersani in pellegrinaggio al festival di Sanremo sono tutti modi di dire: «Sceglietemi perché ci assomigliamo».
Il caso più interessante è senza dubbio quello di Gianfranco Fini, un politico in genere poco incline a indulgere nel populismo linguistico. Qualche mese fa il suo «stronzi» rivolto ai razzisti è stato condannato o difeso dai commentatori politici, ma nessuno lo ha discusso per quello che era realmente: la calcolatissima scelta d'infrangere i registri convenzionali per far sentire più forte la propria voce e per affermare la propria vicinanza alla lingua che gli italiani parlano tutti i giorni. D'ora in poi - annuncia il gesto di Fini - sarà sempre meno necessario rivestirsi di panni curiali prima di rivolgersi agli elettori, nemmeno per le più alte istituzioni dello stato, dal momento che simili cautele sembrano persino controproducenti in una società in cui il rispetto delle forme (in questo caso linguistiche) viene sempre più avvertito come un vuoto formalismo.
Per descrivere la svolta populista della comunicazione politica può tornare utile richiamarsi alla concezione della psiche di Sigmund Freud. Se nella repubblica dei partiti a parlare agli elettori era innanzitutto il super-Io, con i suoi interdetti e i suoi imperativi categorici, non disgiunti da una precisa volontà pedagogica (soprattutto a sinistra), da qualche anno, nella repubblica dei talk show e dei sondaggi, a prendere la parola sembra essere sempre più spesso l'Es freudiano, sede delle pulsioni sotterranee e in qualche modo indicibili, che aspira al consenso facendo leva sugli istinti meno nobili dei cittadini-spettatori.
Come dimostrano quotidianamente le uscite sempre più sguaiate di Di Pietro (compresa quella di ieri relativa al Quirinale), il populismo della comunicazione è un fenomeno trasversale, che infetta a destra quanto a sinistra. Si potrebbe allora distinguere tutt'al più tra un populismo affabile, che caratterizza i leader delle forze politiche della prima Repubblica (in Bersani, Casini, Fini e Vendola) e un populismo sguaiato, nei politici emersi dalle ceneri di quella stagione (in Berlusconi, Bossi e Di Pietro). Ma è una questione solo di gradi, perché la crisi del partito di massa e lo strapotere della tv come unico luogo dove si forma l'opinione pubblica investono tanto gli uni quanto gli altri.
Nonostante tutto, in questa nuova situazione, la destra appare meno a disagio con la recente deriva populista della retorica politica. Senza una precisa vocazione pedagogica non ci può essere una sinistra degna di tale nome e questo persistente richiamo a un dover essere, per quanto a volte irritante per gli elettori, costituisce oggi un potente antidoto al richiamo della demagogia. Oltre un certo confine qui non si può andare. Di fronte alle sempre più scoperte tentazioni peroniste di Berlusconi, l'impressione rimane comunque che, come sul terreno dell'economia, il Partito democratico sia completamente sprovvisto di idee proprie e condannato una volta di più a imitare (male) quanto fa il proprio avversario, rammaricandosi quasi di non poterlo seguire fino in fondo. Il paradosso della crisi italiana è che oggi, davanti a una folla urlante che chiede di liberare Barabba, più di un leader piange in cuor suo di non apparire abbastanza ladrone.

7 marzo 2010
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