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FEDE E STRANIERI / Dagli Usa: «Vade retro immigrati»

di Guido Bolaffi

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7 marzo 2010

T ra immigrazione e società non corre buon sangue. Non solo in Europa, come testimonia il voto olandese, che ha dato al Pvv, il partito xenofobo di Geert Wilders, ottimi risultati ad Almere e all'Aia. Ma anche in America, tra i fedeli delle diverse religioni. Lo testimoniano i risultati, per molti aspetti addirittura inattesi, di un sondaggio all'interno delle comunità cattolica, protestante, ebraica e di quella born-again statunitensi, pubblicati sul numero di dicembre 2009 della rivista del Center for Immigration Studies.
Sull'immigrazione la stragrande maggioranza degli intervistati, infatti, sia pur con accentuazioni e percentuali differenziate, ha opinioni lontane e talvolta addirittura opposte a quelle espresse e pubblicamente sostenute dalle rispettive gerarchie ecclesiali. Un contrasto base-vertice su un tema di cui neppure lontanamente si sospettava l'esistenza in un mondo tradizionalmente ritenuto, e rappresentato, come compattamente aperto e favorevole alla causa degli stranieri. Basta dare un'occhiata alle risposte riportate nelle tabelle pubblicate. Divergenze tanto più rilevanti perché riguardano questioni che, soprattutto oggi e non solo negli Usa, costituiscono i veri punti caldi del complicato rapporto che intercorre tra immigrazione e società. Vediamole una per una.
La prima riguarda l'immigrazione illegale che, questa la posizione ecclesiale ufficiale, è per grande parte causata dalle politiche d'ingresso eccessivamente restrittive. Per cui basterebbe renderle più aperte per ridurne di molto la portata. Non la pensa così, invece, la maggioranza dei fedeli che, con un massimo dell'85% tra i born-again (i Cristiani riconvertiti) e un minimo del 60% tra gli ebrei, è convinta che l'immigrazione illegale sia in grande parte dovuta alla mancanza o all'inefficacia dei sistemi di controllo delle autorità.
La seconda attiene al numero dei nuovi arrivi e lo stock degli immigrati già presenti. Anche in questo caso la base è convinta che, all'opposto di quanto sostenuto dai vertici delle diverse chiese, il problema non è quello di aumentare la componente regolare dei nuovi flussi, quanto quello di ridurne drasticamente il livello. Sono già tanti quelli che ci sono e sono troppi quelli che arrivano.
La terza concerne il che fare dei tantissimi fuori regola presenti. Si legalizzano, come sostengono da sempre e all'unisono i leader religiosi o si rimpatriano? Una vera e propria quadratura del cerchio rispetto alla quale l'opinione degli intervistati è tanto semplice quanto sbrigativa: tutti a casa.

La quarta, che meglio delle altre aiuta a capire l'origine di questa "secessione" delle opinioni dei fedeli rispetto alle posizioni ufficiali delle loro comunità, riguarda l'utilità e l'importanza dell'immigrazione. Che, secondo le tesi ufficiali, ha il grande merito di fornire la forza lavoro a un vasto e crescente numero di lavori che i nazionali rifiutano di fare. Con una funzione complementare e perciò benefica non solo per il mercato del lavoro e l'economia, ma per tutta la società. Non è questo che pensano il 69% dei cattolici, il 73% dei protestati, il 75% dei born-again e il 61% degli ebrei intervistati. Secondo i quali la questione è, se non inesistente, sicuramente mal posta, visto che il problema non deriva dalla presunta in-disponibilità dei lavoratori nazionali, quanto dal livello troppo basso dei salari e dallo scarso riconoscimento sociale che viene attribuito a queste mansioni. Ai loro occhi, l'immigrazione è dunque solo il succedaneo, di cattiva qualità, di una sacrosanta politica redistributiva tra salari e profitti e di un cambiamento della gerarchia di status imperante nel mondo del lavoro contemporaneo, che penalizza in maniera eccessiva quello manuale e ingrato.
Un sondaggio, si dirà, vale per quello che vale. Forse. Quello che in questo caso però più conta è la conferma che sull'immigrazione, anche in un paese tradizionalmente immigration friendly e fra gli appartenenti a un'area di tradizionale, solida cultura pro-immigrati, esiste un disconnect, un non comune intendere tra leadership e singoli cittadini. Una verità che come ogni dato di fatto più che giudicata merita di essere compresa e, se possibile, affrontata.
Come? Semplicemente ricordando che la ricchezza prodotta dall'immigrazione così come i suoi costi non vengono ripartiti in maniera uguale tra i diversi settori e i differenti gruppi sociali. Non è un gioco positivo in cui tutti guadagnano. Ma a somma zero: c'è chi vince e c'è chi perde. Ed è a questi secondi che va prestata l'attenzione che oggi manca. Con le parole e con i fatti. Per evitare, come già altre volte accaduto nella storia, che il disconnect sociale si trasformi in uno scontro tettonico che, com'è noto, produce solo guai e conseguenze distruttive.

7 marzo 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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