Sempre più strano questo mondo di solitari introversi convinti di creare "social network". Strumenti come Facebook e Twitter sono diventati di uso comune (così familiari nella nostra vita che, ad esempio, Facebook quest'anno supererà il miliardo di fatturato), fasce sempre più ampie di popolazione se ne servono. I centinaia di milioni di utenti vanno dai bambini di cinque anni - messi in rete dai loro genitori per mostarne orgogliosi le foto – fino a seri professionisti, convinti che è un modo in più di fare réseau. Ma è nell'antropologia quotidiana che vengono fuori le stranezze di questa enorme macchia di connessioni che si allarga sempre più.
Una manifestazione recente a Berlino, il Transmediale Festival dal titolo «Liquid Democracies», ha cercato di fare il punto sulla questione. Da un lato c'è l'incredibile successo dei social network, vissuti come uno strumento per mantenere e allargare la propria rete di rapporti, dall'altro l'impressione che tutto questo sia un modo di controllare e gestire da parte di grandi monopoli un immenso numero di utenti. Matteo Pasquinelli, fondatore di Indymedia, oggi ricercatore di stanza a Londra, autore di un libro ambizioso Animal Spirit sulle radici vitaliste e istintiviste del capitalismo, è intervenuto al convegno con una tesi forte: per lui si tratta di un neofeudalesimo digitale, siamo cioè dinanzi a una concentrazione in pochissime mani di tutto il traffico digitale.
Facebook, Google, Twitter sono un bene nelle mani di nuovi baroni e gli utenti sono sprovvisti di controllo su dove ciò che comunicano va a finire. In un mondo in cui le classi medie stanno sparendo dappertutto, questo è un nuovo feudalesimo dove la ridistribuzione delle risorse da parte dei baroni viene vissuta dagli utenti come una specie di divina donazione di accesso ad alcune fonti. Come se lo spirito anarchico e radicale che era alle origini della rete si fosse perduto nella sempre più sofisticata tecnologia. Con serio possibile danno per la democrazia.
L'ultimo grido oggi in campo digitale è riuscire a sparire. È quello che alcune piccole agenzie militanti stanno provando a offrire: il suicidio virtuale. Pagate poco meno di 50 euro e vi cancellano da tutti i siti, cancellano le vostre tracce da Facebook, Twitter, LinkedIn e Google e da qualunque altra rete. Si chiama Seppuko, un nome giapponese per suicidio, e funziona così: voi scrivete una lettera d'addio a tutti coloro con cui siete in comunicazione nella rete, come se fosse un testamento o le ultime volontà. Dopodiché sparite. Ma dal numero delle persone che leggono il vostro testamento e da quelle che decidono di seguire la vostra sorte avete un'ultima grande soddisfazione, quella di vedere davvero chi ci teneva a voi al punto tale da accettare l'invito: chi mi ama mi segua!
Facebook si è molto arrabbiato e ha fatto causa ai gestori del Seppoku, che si chiamano Worm (suicide@moddr.net / publiciteit@wormweb.nlwww.moddr.net / www.wormweb.nl) e hanno sede a Rotterdam. Il suicidio virtuale risponde a un nuovo tipo di clientela, quella che comincia a capire che stare "sempre" sulla rete non paga e quella che è delusa dal carattere molto "vetrinetta e gossip" di Facebook o dal carattere degradante della comunicazione di Twitter (poche stringate righe in un format molto rigido).
Dal punto di vista antropologico Facebook è forse l'oggetto più singolare. Sostituisce la piazza perché mette insieme incontri con gente conosciuta e la possibilità, tramite amici di amici o semplicemente per essere visibile su una rete, d'incontrare sconosciuti. In più è una vetrina di sé, con le proprie foto, le proprie poesie, i video, i link ai siti e alle canzoni, un incensamento discreto del generale narcisismo della nostra società, dove ognuno può essere famoso per un quarto d'ora, come diceva Andy Warhol. Ma c'è anche l'ebbrezza modesta del buco della serratura. Poco tempo fa, a una conferenza, ho incrociato lo sguardo con una signora piuttosto avvenente e presente con marito e bimbi. Prima di lasciare la sala la signora è venuta a complimentarsi e poi mi ha chiesto se fossi su Facebook. L'indomani ho trovato le sue foto in bikini. E sono sicuro che la signora non aveva alcuna intenzione immodesta. Era un modo di dirmi: lo vede, ci sono, sono così. E questo ha chiuso la relazione ovviamente: lo scopo del comunicare non era "andare avanti", ma attestarsi su una vetrinetta della propria identità.
Su Facebook c'è sempre più gente che spende notti intere, gente convinta che quello è un modo di non essere soli. Ma Facebook non è un sito di appuntamenti. È una piattaforma per dire ci sono, ti conosco, e faccio parte delle persone che tu conosci. Si va dai vostri compagni dell'asilo, agli studenti che hanno seguito le vostre lezioni, a gente che non vi conosce ma sa chi siete.
La cosa più impressionante però, visto che ormai Facebook ha le dimensioni di mezza Europa, è che può capitarvi di cercare un conoscente o un amico che non sentivate da anni e scoprire che c'è su Facebook, ma che è morto e che nessuno lo può levare di lì, perché era lui o lei ad avere la password. E spesso la sua finestra diventa una specie di altarino su cui si depositano i messaggi degli amici e dei conoscenti. Con l'andar del tempo Facebook diventerà un luogo con cimiteri virtuali, con raggruppamenti di defunti, con cui si continuerà a comunicare, in un modo o nell'altro. Come si vede, chi ha pensato al suicidio virtuale non era poi tanto lontano dall'aver capito che cosa è davvero imperdonabile nella nostra società: svanire.