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MERCATI E MERCANTI / Sull'inflazione Roubini ci prende e Rogoff sbaglia

di Alessandro Merli

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7 Ottobre 2009

Gli economisti, accusati di non aver saputo prevedere la crisi, non hanno perso la voglia di cercare di individuarne i rimedi. Due pesi massimi della disciplina, l'ex capo economista del Fondo monetario, Ken Rogoff, e Nouriel Roubini, il guru che si è conquistato i galloni per esser stato uno dei pochi a vedere all'orizzonte lo sconquasso che stava per scoppiare, hanno ingaggiato un duello a distanza su quello che sarà il problema dei problemi sul fronte macroeconomico nel dopo-crisi: l'esplosione del debito pubblico nei grandi paesi industriali, causata dai piani varati per rianimare l'economia e dai salvataggi delle banche. Come risolverlo, è già al centro del dibattito fra i policy-makers, e lo sarà per diversi mesi.
A Istanbul, l'Fmi ha detto la sua, proponendo la ricetta classica di tagli alla spesa e aumenti di tasse. Ma Rogoff già da qualche tempo aveva proposto una tesi controcorrente, di lasciare aumentare l'inflazione, in modo che questa possa erodere progressivamente il debito. Anzi, ha sostenuto che la Federal Reserve dovrebbe annunciare un obiettivo d'inflazione del 6% per due anni consecutivi. Così si disinnescherebbe la bomba del debito e si ammorbidirebbe il brutale processo di deleveraging dell'economia, che negli Usa riguarda anche le famiglie. Cos'è in fondo l'inflazione al 6% per un paio d'anni, se si rassicura che poi si tornerà sulla retta via e se si può evitare che i danni peggiori si scarichino sull'economia reale?
Roubini da Istanbul gli ha risposto con tre argomentazioni: il genio dell'inflazione, una volta uscito dalla bottiglia, potrebbe non volerci più rientrare, costringendo la Fed a una restrizione violenta come quella adottata da Paul Volcker nei primi anni 80 e quindi provocando una nuova recessione; parte del debito pubblico Usa è comunque indicizzato, e quindi insensibile agli aumenti d'inflazione; il Tesoro americano è un debitore che avrà bisogno di continuare ad attrarre investitori per dosi massicce di debito, e questi non accetterebbero di essere sottoposti all'inflation tax e probabilmente diserterebbero le emissioni future.
Curiosa inversione dei ruoli: Rogoff, che è passato da un'istituzione custode dell'ortodossia come l'Fmi, ha scelto la strada meno convenzionale, mentre Roubini, amante delle provocazioni intellettuali, ha sposato una linea più tradizionale e che appare più aderente alla realtà. Anche perché c'è un altro elemento: l'atteggiamento più rigido dell'Europa nei confronti dell'inflazione, indurrà probabilmente una stretta su questa sponda dell'Atlantico, prima che sull'altra. Se di là scegliessero di lasciar andare l'inflazione, questo accentuerebbe probabilmente la fuga dal dollaro, con il rischio per gli Usa di una crisi valutaria e una crisi fiscale che si alimenterebbero a vicenda. Per una volta, Rogoff sarà stato più originale, ma è Roubini che appare più convincente. Se il debito pubblico è il problema, la soluzione non è l'inflazione.

7 Ottobre 2009
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