Le tensioni fra Stati Uniti e Cina stanno crescendo e cominciano a destare preoccupazione. Washington accusa Pechino di puntellare slealmente le proprie esportazioni mantenendo artificialmente basso il valore dello yuan, e guarda con inquietudine alla disputa con Google sulla censura della Rete. Pechino dice a Washington di farsi i fatti propri e non nasconde la propria irritazione per la vendita di armi americane a Taiwan e il recente incontro del presidente Obama con il Dalai Lama.
Con la rabbia che cresce, dall'una e dall'altra parte, i leader americani e cinesi devono affrettarsi a prendere misure per stemperare la tensione. Il rischio, altrimenti, è che la persistente ascesa del paese asiatico si trasformi ben presto in una classica rivalità fra la potenza egemone regnante e lo sfidante rampante.

Sono appena tornato a Washington dopo una visita a Pechino: l'antagonismo reciproco è palpabile, dall'una e dall'altra parte. Con l'economia che non vuole saperne di risalire, la Casa Bianca vede sempre meno di buon occhio lo squilibrio commerciale con la Cina. In un caso ormai raro di consenso trasversale, democratici e repubblicani chiedono all'unisono l'adozione di misure ritorsive contro l'uso strumentale delle politiche valutarie da parte della Cina. A Washington si commenta che Pechino ha abbandonato repentinamente la propria tradizione di prudenza in politica estera in favore di una caustica assertività.
A Pechino, invece, tengono banco le accuse contro Washington. I leader cinesi sostengono che gli americani vogliono scaricare sulla Cina la responsabilità di problemi economici che hanno creato loro stessi.

In una recente conferenza stampa, il primo ministro Wen Jiabao ha negato che la valuta cinese sia sottovalutata e ha affermato che la responsabilità dei "gravi turbamenti" nel rapporto fra Cina e Stati Uniti «non ricade su Pechino, ma su Washington». La stampa e la blogosfera cinese straripano di appelli ai leader nazionali perché reagiscano alle intimidazioni americane.
Nonostante la retorica montante, dietro alla discordia attuale non c'è un contrasto di fondo su questioni d'interesse nazionale. È una situazione che nasce da pressioni interne, sia in Cina che in America, che costringono i rispettivi governi a un controproducente gioco di pan per focaccia. Ci sarebbe una via d'uscita proficua per entrambi, ma prima di poterla percorrere dovrà diradarsi il fumo delle recriminazioni reciproche.

A prescindere dalle dichiarazioni dei leader cinesi, una forte rivalutazione dello yuan è nell'interesse della Cina. In questo modo, il governo di Pechino potrebbe affrontare la sua sfida politica più pressante: ridurre la disuguaglianza e migliorare la qualità della vita di milioni di cinesi. Il modo migliore per raggiungere questo obiettivo è abbandonare l'attuale strategia economica, fondata su una crescita trainata dalle esportazioni, colossali riserve valutarie in dollari e un tasso di risparmio elevato, in favore di una politica d'investimenti interni e rilancio dei consumi.

Uno yuan più forte favorirebbe il raggiungimento di questi obiettivi perché incrementerebbe il potere d'acquisto dei consumatori cinesi, ridistribuendo la ricchezza, ora concentrata nelle mani dei grandi esportatori (spesso di proprietà pubblica) alla cittadinanza in genere. La Cina (come il resto del mondo) trarrebbe beneficio da questo riequilibrio e dall'impulso all'economia globale che di questo riequilibrio sarebbe la conseguenza.
Uno dei motivi per cui i governanti cinesi non seguono questa politica sono le pressioni delle potenti società esportatrici. Ma un ruolo altrettanto importante nell'intransigenza cinese lo giocano le pressioni provenienti da Washington. Nel contesto di nazionalismo aggressivo che è ormai un ingrediente ricorrente della politica cinese, più gli Usa fanno pressione su Pechino per rivalutare la moneta, più i leader cinesi puntano i piedi.

Washington ha ragione a volere una rivalutazione dello yuan, ma sbaglia a perseguire questo obiettivo alzando la voce con la Cina. Il problema è che il presidente Obama, proprio come le sue controparti cinesi, deve fare la voce grossa per venire incontro all'opinione pubblica. I sindacati chiedono a gran voce misure per contenere le importazioni cinesi, e tenere testa a Pechino può aiutare Obama a tacitare le critiche di chi lo accusa di non essere sufficientemente energico con i regimi illiberali.
Come fare per uscire da quest'impasse? Washington e Pechino dovrebbero impegnarsi a fare passi avanti reciproci, adottando misure che vengano incontro all'altra parte concedendole maggiore spazio di manovra sul fronte interno.

Washington potrebbe inviare un segnale distensivo allentando i controlli sulle esportazioni di tecnologia, molto malvisti a Pechino. Potrebbe proporre programmi di ricerca congiunti sulle tecnologie verdi e la gestione delle risorse. E invece di assillare pubblicamente la Cina sulla questione dello yuan, potrebbero portare avanti questa loro rivendicazione nel quadro del G20, dando ai governanti cinesi lo spazio di manovra di cui hanno bisogno per agire.
Pechino potrebbe ricambiare sostenendo gli sforzi americani mirati a un rafforzamento delle sanzioni contro l'Iran, se i mullah continueranno a rifiutare di scendere a compromessi sul programma nucleare.

Un atteggiamento collaborativo da parte cinese migliorerebbe notevolmente l'immagine del Celeste Impero a Washington, e sarebbe di grande aiuto in tal senso anche un allentamento della censura sulla Rete. Se questi gesti reciproci di buona volontà dovessero portare a una distensione, il governo cinese si troverebbe in una posizione molto più propizia per rivalutare lo yuan, e questo ridurrebbe ulteriormente gli attriti.
Certo, gli Stati Uniti e la Cina hanno le loro divergenze, su Taiwan, sui diritti umani e su altre questioni, ma almeno per adesso i due paesi non sono in rotta di collisione sul piano geopolitico. È vero però che stanno percorrendo a tutta velocità una strada che rischia di trasformare le divergenze d'opinione in una pericolosa rivalità. È arrivato il momento, dall'una e dall'altra parte del Pacifico, di mettere il piede sul freno.

© THE NEW YORK TIMES
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Dal Sole 24 Ore del 7 aprile 2010
È Pechino il grande burattinaio dei cambi (di Martin Wolf)