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Il rispetto della Costituzione e il cappotto del Presidente

di Michele Ainis

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8 aprile 2010
Il rispetto della Costituzione e il cappotto del Presidente

La legge sul legittimo impedimento può piacere o non piacere. Diciamolo senza troppi giri di parole: a noi non piace. Il bilanciamento fra le esigenze processuali e quelle di governo avrebbe potuto trovare un equilibrio più soddisfacente. Lo spazio del sindacato giudiziario in ordine alla richiesta di rinvio dell'udienza penale, depositata dalla presidenza del Consiglio, si presta a vari malintesi. Infine sarebbe stato meglio, molto meglio, un esame parlamentare approfondito, senza la camicia di forza del voto di fiducia.

Può darsi che in futuro questa legge suoni antipatica pure alla Consulta, ma non è questo il punto. Oggi la questione investe il ruolo del capo dello stato, le critiche o gli applausi per averla promulgata. D'altronde le due tifoserie sono entrate già in azione e non smetteranno troppo presto. E allora diciamolo di nuovo senza infingimenti: sbagliate bersaglio, c'è errore di mira. Non tanto perché il presidente sia immune da contestazioni; ci mancherebbe, in democrazia non esistono santini. Quanto perché non è di Napolitano la paternità delle scelte timbrate nella legge. Altrimenti la promulgazione sarebbe tal quale la sanzione regia, una terza approvazione dopo quella delle Camere.

Naturalmente, c'è sempre un'obiezione all'obiezione. Funziona così: sappiamo che le decisioni spettano alla maggioranza di governo, però il capo dello stato rappresenta il supremo garante delle nostre istituzioni. Se dunque ha acceso il verde del semaforo sul legittimo impedimento, significa che non vi ha ravvisato profili d'incostituzionalità, o almeno non così evidenti. Da qui gli applausi (della maggioranza), nonché le critiche (di questa o quella minoranza). Da qui, in breve, l'uso del Colle come parapioggia, o al contrario come acchiappafulmini.

In questo atteggiamento, in quest'accalcarsi sotto il paletot del presidente c'è un errore prospettico, un abbaglio giuridico. Se infatti il capo dello stato fosse anche giudice circa la costituzionalità delle leggi sottoposte alla sua firma, allora delle due l'una. O le promulga, attestandone così la piena coerenza con la Costituzione; ma l'indomani la Consulta può smentirlo, e d'altronde le sentenze d'annullamento di leggi regolarmente promulgate si contano a decine l'anno. Oppure non le promulga, perché in contrasto con la Carta; ma se il Parlamento le riapprova senza cambiare un aggettivo (successe a Giovanni Leone nel 1975, quando rinviò la legge elettorale del Csm), il presidente sarà costretto a promulgare un atto normativo che ha dichiarato già incostituzionale. Nell'uno e nell'altro caso la sua autorità subirebbe una ferita, una diminuzione permanente.

Conviene allora dirlo con chiarezza: non la costituzionalità, bensì l'opportunità costituzionale è l'inchiostro con cui scrive il capo dello Stato. E infatti Napolitano non ha messo in campo la categoria della legittimità costituzionale, né quando ha rinviato la legge sul lavoro, né quando ha promulgato quella sul legittimo impedimento. Sicché la domanda giusta è un'altra: dobbiamo giudicare sommamente inopportuna la nuova disciplina di cui s'avvantaggiano il premier e tutti i suoi ministri? Napolitano avrebbe fatto bene a rispedirla al mittente, considerandola offensiva dei valori condivisi su cui gravita la nostra convivenza?

Se dimentichiamo le varie simpatie politiche e ci applichiamo a uno sforzo d'onestà intellettuale, la risposta è no. In primo luogo perché il «sereno svolgimento» delle funzioni di governo descrive un interesse pubblico, riconosciuto peraltro dalla stessa Consulta (sentenze 24/2004 e 262/2009). In secondo luogo perché questo interesse sussisteva già per i parlamentari (così, di nuovo, la Consulta: sentenze 225/2001 e 451/2005), nonché in capo ai ministri (Cassazione, sentenza 10.773/2004). In terzo luogo perché il legittimo impedimento sospende la prescrizione dei reati, ed è perciò più restrittivo anche rispetto all'immunità parlamentare configurata dal vecchio articolo 68 della Costituzione. In quarto luogo perché la nuova legge è a termine, sicché non vale per tutti i secoli a venire, ma al massimo per 18 mesi. In quinto luogo perché la doppia fiducia che ne ha strozzato la discussione in Parlamento, pur deprecabile, di per sé non basta: altrimenti, con 31 votazioni di fiducia fin qui collezionate dal governo Berlusconi, Napolitano avrebbe dovuto fare una razzia legislativa.

E c'è infine un aspetto che in futuro potrà rivelarsi decisivo. La legge parla di «legittimo» impedimento, non d'impedimento «assoluto». Significa che un'interpretazione conforme a Costituzione può recuperare spazio alla discrezionalità del giudice, permettendogli di sindacare le ragioni addotte dalla presidenza del Consiglio, ed eventualmente di respingerle. In questo senso, d'altronde, si è espresso già qualche giurista, nonché un esponente della maggioranza (Manlio Contento) durante l'iter di gestazione della legge. Poi, certo, chi ha scritto la nuova disciplina aveva tutt'altri scopi in mente. Ma pazienza, alla prossima occasione gli regaleremo una bella penna nuova.

8 aprile 2010
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