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Il primario cerca all'estero l'antidoto alla routine

di Elio Silva

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8 febbraio 2010

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Considerazioni molto simili a quelle espresse da Roberto Moretti, 48 anni, uno specialista che lavora al Centro di educazione alla salute dell'Asl di Bergamo e insegna sanità pubblica all'università di Ginevra ma che, come volontario, da otto anni mette tempo e competenze al servizio del Cesvi, organizzazione umanitaria impegnata in progetti di lotta alla povertà. «Fin dalla prima esperienza, in un villaggio del Mali - spiega - ho capito che in quei luoghi bisogna far funzionare la testa in modo diverso, riflettere e trovare soluzioni nuove. Questo approccio, poi, torna utile anche nell'esercizio della professione in Italia, per quanto sia faticoso e impegnativo».

«È importante - aggiunge - sapere che fare il medico volontario in Africa non significa andare a colonizzare i colleghi. A tutte le latitudini, oggi, si trovano bravi sanitari e il personale manca non tanto nelle città, quanto nella savana o nelle zone desertiche, dove i professionisti locali hanno scarso interesse a operare. Qui scatta la molla ideale e umanitaria, che rende il nostro lavoro infinitamente prezioso». «In una realtà come quella odierna - conclude - servono forse più le capacità e le doti progettuali che non gli interventi d'urgenza, perché i nodi sono in gran parte strutturali».

Cambiano le situazioni, ma i problemi di fondo non sono mai molto diversi: anche Reggiori, che ad Haiti ha collaborato alla nascita di quattro ambulatori in una tendopoli a Port au Prince, sottolinea di avere riscontrato «un'incidenza molto elevata di malattie da malnutrizione e mancanza di igiene», a riprova del fatto che i nodi sanitari di quel paese sono endemici.
Problemi ben noti anche in Africa, dove si concentra la maggior parte delle esperienze dei volontari. Azzurra Colasanti, 38 anni, pediatra all'ospedale di Civitavecchia, racconta di aver sognato a lungo di «andare nel sud del mondo per conoscere quelle realtà e rendermi utile». Tre anni fa, a seguito di una segnalazione ricevuta dal suo ex primario, la scelta di mettersi in ferie e raggiungere Adua, dove è poi tornata altre due volte, nel villaggio della fondazione James non morirà. «Dal punto di vista professionale è un'esperienza utilissima, perché costringe il medico a rivalutare al massimo la clinica, che non si dovrebbe mai perdere di vista. Si lavora con pochi mezzi, eppure si possono salvare tante vite. Ma è soprattutto l'esperienza umana che non si può dimenticare: là c'è il mondo vero, con una ricchezza di sentimenti, una sincerità e una gratitudine immense».

Parole simili a quelle di Francesca Moioli, specialista in ortopedia all'ospedale Sacco di Milano e più volte volontaria in Etiopia, o di Claudia Gandolfi, pediatra, bergamasca, impegnata fin dal 1987 in missioni legate ai progetti del Cesvi. «L'impulso iniziale - spiega la Gandolfi - era dettato da ragioni sia umanitarie, sia professionali. Volevo fare un'esperienza di lavoro diversa ma, dopo un primo periodo in Senegal, ho deciso di tornare più spesso e, tra il 2000 e il 2002, sono rimasta in Zimbabwe per un progetto di contrasto all'Aids».

Invece Mimmo Risica, 57 anni, primario di cardiologia all'ospedale di Venezia, ha aspettato quasi un quarto di secolo prima di veder realizzato il proprio sogno. «Da studente in medicina avevo trascorso un anno in Messico - racconta - e da allora ho sempre cercato un'opportunità per andare nel sud del mondo come cardiologo, così da rendermi utile in quella che è la mia specializzazione. Quando, nel 2007, Emergency ha aperto l'ospedale di Khartoum ho dato subito la mia disponibilità e sono partito come volontario, facendo di tutto, dalla pulizia generale al collaudo finale fino all'operatività clinica». Così Risica dedica le proprie ferie alle missioni in Africa, «un'esperienza entusiasmante e totalizzante, dove ci si lascia alle spalle la burocrazia e si pensa solo a lavorare bene». Senza dimenticare «il contatto con la popolazione locale, che ci insegna moltissimo, anche sul modo di affrontare la malattia e la morte».
Ecco perché chi si iscrive a un viaggio di volontariato vorrebbe, poi, farne altri cento. Come riassume Monti, «il rapporto medico-paziente in Italia non ci ripaga con altrettante soddisfazioni. Si parte per salvare gli altri, è vero, ma alla fine si riceve molto più di quanto si sia dato».

elio.silva@ilsole24ore.com

8 febbraio 2010
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