La riduzione del numero di nuovi iscritti alle professioni è una tendenza da verificare con attenzione nei prossimi anni. Ma non è proprio un dettaglio il fatto che questo segnale non riguardi gli avvocati, che invece continuano a crescere.
In via generale, la numerosità dei professionisti deve corrispondere grosso modo ai bisogni effettivi della popolazione. Ogni eccesso di "offerta" produce fatalmente lo svilimento della professione stessa e la caduta del suo livello etico-cognitivo.
Visto in questi termini, l'arresto della crescita numerica dei professionisti non rappresenta un fatto negativo. E dimostrerebbe anche una presa di coscienza da parte dei giovani aspiranti professionisti dell'eccessivo affollamento raggiunto, a fronte delle evidenti difficoltà che si presentano a chi voglia diventare libero professionista (lunghi studi, pratica difficile, crisi economica).
Eppure, il caso degli avvocati fa riflettere. Nella professione forense l'equilibrio tra il numero degli "attivi" e i bisogni della popolazione (a livello di giurisdizione e attività collegate) è stato da tempo sconvolto. Gli avvocati sono troppi rispetto alle esigenze, con un numero enorme di professionisti e contemporaneamente una diminuzione del lavoro legale. La prospettiva per il futuro della professione forense non è rosea, è oscura.
Una simile crisi si rivela nelle esperienze di molti avvocati, gravati da spese, costi di gestione rilevanti e senza clienti disposti ad affrontare cause che non vengono mai decise. Questa situazione genera forme di marginalità che ben poco hanno a vedere con la centralità che fino a dieci anni fa connotava il ceto forense. Nei fatti si è già realizzato lo sfaldamento economico di una professione che rappresentava uno dei caposaldi del mondo professionale. Il libero avvocato, di causa, cioè il vero esperto operante nei meccanismi della giurisdizione, è dovunque in Italia in grave difficoltà.
Il caso degli avvocati dimostra quanto sia pericoloso immiserire e contrastare il sistema della professioni, nelle società che per mantenere un alto livello di produzione fanno appello alla "conoscenza".
Va stabilita una fondamentale equazione: la crisi di importanti settori funzionali del mondo professionale implica immediatamente l'involuzione di grandi servizi pubblici, come l'assistenza sanitaria, l'assistenza farmaceutica, la tutela giurisdizionale, l'edilizia e l'urbanistica, l'istruzione pubblica, la difesa del territorio, la comunicazione e l'informazione, la ricerca.
Se le professioni che fanno funzionare un servizio entrano in crisi, anche il servizio subisce un'inevitabile involuzione. Si immagini quale effetto produrrebbe sulla sanità il declassamento dei medici, o degli architetti e degli ingegneri sul settore edilizio; o dei giornalisti sui giornali, tabloid, ecc.. Pensiamo a quanti danni ha prodotto in Italia il cattivo trattamento dei ricercatori nella ricerca scientifica.
In altre parole, non si può tenere in piedi un grande servizio se non si trattano dignitosamente i professionisti che ne assicurano il funzionamento.
Il problema dei numeri si coniuga evidentemente con questa constatazione. In futuro bisognerà tenerne conto, accantonando i noti pregiudizi contro le professioni che finora hanno prodotto un danno grave, anzi gravissimo, a tutti i meccanismi portanti della società, specie ai servizi che sono destinati a migliorare la vita dei cittadini. Quando impareremo come funziona sul piano economico-cognitivo la cosiddetta "società della conoscenza"?