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La politica lenta insegue i mercati

di Orazio Carabini

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08 Maggio 2010

Tra la politica e i mercati finanziari di rado si crea una sintonia. Più spesso prevalgono le incomprensioni che possono degenerare in tensioni. Quanto sta accadendo in questi giorni è emblematico: il pollice verso che i mercati hanno alzato contro la Grecia e le analisi diffuse dagli analisti sui rischi di contagio del malessere ellenico ad altri paesi hanno scatenato la reazione dei governi.
È bene dire subito che alcune esasperazioni dei politici, certi toni da «dagli all'untore», in un periodo delicato come quello attuale, sono deprecabili. In un clima così difficile basta poco per innescare moti di piazza e gesti inconsulti: scatenare i Black bloc contro le banche e la finanza non giova a nessuno. Come non è utile creare un humus favorevole a ritorni di fiamma per uno statalismo dirigista di cui, talvolta, si avverte la nostalgia in alcune posizioni politiche. Per esempio, in Italia, della Lega. D'altro canto è abbastanza sorprendente la fretta con cui il mondo, o buona parte di esso, sta cercando di ripristinare la regola aurea messa duramente alla prova dalla crisi del 2008: il mercato ha sempre ragione. La storia dovrebbe avere ormai insegnato che non è vero. Purtroppo, perché sarebbe bello potersi fidare di un comandamento tanto semplice e lineare.

E invece il mercato è fatto di uomini i cui comportamenti sono ispirati a logiche che con il benessere collettivo spesso non hanno nulla a che fare. La stessa scuola economica di Chicago, che tanto ha contribuito alla costruzione del mito dell'infallibilità o dell'efficienza del mercato, si è dovuta ricredere.
In questi mesi gli analisti macroeconomici delle grandi banche si sono esercitati nei più sofisticati esercizi di previsione sul debito pubblico dei vari paesi. Richiamando giustamente l'attenzione sull'elevato livello raggiunto in numerosi casi e sulla necessità di un'"exit strategy". Sono gli stessi analisti che fino a poco tempo fa raccomandavano ai governi di sostenere l'economia, e di salvare le banche, con il denaro pubblico. Per evitare che la recessione degenerasse in depressione e che l'economia piombasse in una sindrome paragonabile a quella degli anni 30.
Era la ricetta giusta, non c'è dubbio. Ma adesso che i soldi sono stati pompati nel sistema e che i titoli del debito pubblico si sono accumulati nei portafogli degli investitori, quegli analisti si spaventano per l'ammontare dei bond da rinnovare e invocano politiche fiscali tanto restrittive da rendere inevitabile una nuova recessione.
Questo non significa che l'aggiustamento dei conti pubblici non vada fatto. Ci mancherebbe. Il corto circuito tra la politica e i mercati nasce proprio qui: gli operatori vogliono segnali chiari, tempestivi e non occasionali che le riforme si fanno, che le decisioni necessarie saranno prese. Chi governa deve rispondere senza esitazioni.
E bene non dare credito, fino a prova contraria, a colorite teorie cospiratorie, all'esistenza di una cupola della speculazione in cui Soros e altri finanzieri orchestrano i flussi del denaro. Allo stesso tempo non si può non registrare che la grande finanza prima è stata salvata, poi ha ripreso a fare profitti e sta spendendo un sacco di soldi per fare lobby contro le riforme dei mercati, soprattutto negli Usa. Intanto fa paura ai governi con lo spettro del default del debito pubblico.
In questo modo però la grande finanza rischia di far ripiombare il mondo negli anni bui della chiusura delle frontiere ai capitali, frenando anche quella globalizzazione dell'economia reale che tanti benefici ha portato anche nelle aree meno sviluppate del pianeta. Si dirà: «La finanza fa gli interessi dei suoi clienti». Ma è davvero così? Buttare un birillo al giorno e seminare i germi dell'instabilità significa tutelare chi investe? La stessa responsabilità che si invoca in chi fa politica deve essere il primo obbligo di chi fa finanza.

08 Maggio 2010
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