Gli economisti ragionano su quali riforme servono nella finanza. Robert Shiller ha preso le difese della "democrazia finanziaria", sostenendo che la disponibilità di un'ampia gamma di prodotti finanziari consente a tutti di accedere alla liquidità e assicurarsi contro il rischio. Una settimana prima, sul New York Times, Paul Krugman aveva segnalato come punto focale delle riforme il sistema di retribuzione dei banchieri. Il problema di queste discussioni è che introducono dei diversivi. Miei cari supereconomisti, il problema è il debito. Qualunque soluzione che non tenga conto di questo fatto è un'idea sballata.
Come scrivevo sul Financial Times, la crisi e la recessione non erano poi così difficili da prevedere se si guardava al flusso di fondi - a credito e a debito - e al settore finanziario separatamente dall'economia reale. Seguendo la stessa logica, dovrebbe essere ormai piuttosto chiaro qual è il nostro obiettivo a lungo termine in termini di riforma finanziaria: il credito non deve più servire a gonfiare il settore finanziario, ma a sostenere l'economia reale, invece di oberarla di debiti.
Tra il 1980 e il 2007, l'era del credito facilee della deregolamentazione, le banche hanno avuto tutti gli incentivi a prestare a fronte di un aumento dei prezzi delle attività (plusvalenze), invece di prestare a beneficio di progetti dell'economia reale (profitti). Negli anni 90 e negli anni 2000, il volume dei prestitiè cresciuto fino a livelli record, alimentando boom globali dell'immobiliare, dei derivati e del carry trade. Negli Usa, il settore finanziario nel 2007 ha intercettato più dell'80% dei capitali prestati dalle banche: nel 1980 era il 60 per cento (ed era già più alto rispetto al 50% degli anni 50).
Ma il prezzo è stato un aumento dell'indebitamento. Profitti e plusvalenze alla singola banca possono apparire più o meno equivalenti - un flusso di entrate - ma producono conseguenze macroeconomiche differenti. Prestare all'economia reale è qualcosa che si ammortizza da sé: crea debito, ma anche il valore aggiunto necessario per ripagare capitale e interessi. Prestiti di questo genere ingrandiscono l'economia in rapporto ai debiti creati e sono finanziariamente sostenibili. Al contrario, i prestiti per creare o comprare attività e strumenti finanziari non sono, di per sé, autoammortizzanti. In una situazione di boom del credito, i successivi proprietari possono vendere il bene realizzando un profitto, ma i loro acquirenti dovranno accollarsi in proporzione più debito per acquisire il bene, compensato ( per il momento) dal valore del bene. La compravendita di beni può essere redditizia per l'individuo, ma è un gioco a somma zero, sostenibile solo se l'economia reale fornisce abbastanza denaro per sostenere il fardello crescente del debito. Oltre un certo punto, il miraggio delle plusvalenze distoglie fondi dagli investimenti nell'economia reale,e l'incremento del servizio del debito per le famiglie riduce la domanda di prodotti dell'economia reale. In un senso o nell'altro, la crescita eccessiva del mercato delle attività finanziarie si autodistrugge.
Questa logica trova riscontro nelle statistiche. I prestiti al settore dell'economia reale in percentuale del prodotto interno lordo negli Stati Uniti sono rimasti più o meno costanti dagli anni 80. Al contrario, sempre Oltreoceano, i prestiti da parte di banche ad altre banche sono passati da 2,5 volte il Pil nel 1980 a 5,8 volte nel 2007: una differenza interamente attribuibile ai prestiti al settore finanziario che nel 2007 era tre volte più grande rispetto al 1980.
L'afflusso di credito sui mercati delle attività ha creato un accumulo di debito, con parallela riduzione della capacità dell'economia reale di rimborsare il debito. Anche la domanda dei prodotti dell'economia reale ne ha risentito, perché nel 2007 le famiglie americane pagavano più di un quinto del loro reddito disponibile, dopo le tasse, al settore finanziario, sotto forma di servizio del debito e commissioni finanziarie. Gli Stati Uniti erano diventati un'economia che cercava di viaggiare col freno tirato. La recessione dell'economia reale, dopo la crisi finanziaria del 2007, è avvenuta perché questa era diventata eccessivamente dipendente dai prestiti offerti a fronte di un incremento del valore delle attività. Queste sono le tendenze che le riforme finanziarie devono correggere.
Una strada promettente è la riforma fiscale. Durante il boom degli ultimi decenni, le tasse sulle plusvalenze in America, in Gran Bretagna e nella maggior parte delle altre economie dell'Ocse sono calate in rapporto all'imposta sul valore aggiunto e alle tasse sul lavoro. Quando le banche si saranno riprese, avranno bisogno di un clima normativo e politico che scoraggi la ricerca delle plusvalenze fine a se stessa, e che favorisca la crescita dell'economia reale. La finanza dovrebbe essere l'ancella dell'economia, non il contrario.
In questa prospettiva, non ha senso focalizzarsi sui bonus esorbitanti o sulla democrazia finanziaria. La proposta di Shiller rischia di tornare a far crescere il volume degli strumenti finanziari e del debito da essi generato. Non eravamo tutti felici, un tempo, dell'esistenza dei derivati, perché estendevano la possibilità di accedere a un mutuo a strati sociali che prima ne erano esclusi? Ci eravamo dimenticati che questi strumenti devono avere una base nell'economia reale. Allo stesso modo,l'entusiasmo per il recupero dei mercati delle attività (nonostante l'economia reale continui a contrarsi) dimostra quanto sia estesa la confusione fra settore finanziario ed economia reale. La priorità ora non è rivitalizzare i mercati delle attività, ma trasformare un settore finanziario gonfiato all'eccesso e disfunzionale in qualcosa che sia capace di supportare l'economia reale in modo sostenibile ed efficiente.
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