Il ministro Maroni ha lanciato l'allarme sulla presenza di cellule del terrorismo islamico che si formano si finanziano e si addestrano in Italia. Il fallito attentato alla caserma di Milano e il recente arresto di un presunto terrorista franco-algerino ingegnere nucleare, sono occasioni per riflettere su un nuovo tipo di terrorismo che alcuni studiosi chiamano "terrorismo di terzo tipo", e che si differenzia notevolmente da quello degli anni 70. Quello aveva un nome, un volto, un apparato ideologico preciso: era facile identificarlo, perché le sue strutture erano stabili e le sue organizzazioni molto gerarchizzate. Un terrorismo elitario che reclutava i suoi aderenti in ambiti socioculturali circoscritti, caratterizzato dalla visibilità e dalla forte volontà di comunicare e di manifestare ovunque le sue intenzioni.
A partire dall'attentato dell'11 settembre si sta delineando un terrorismo dal profilo singolare, che esce dai quadri mentali e psicologici consueti. Si può affermare che è mosso essenzialmente da una volontà di destabilizzazione. Il primato della destabilizzazione sulla rivendicazione è già di per sé indice della crescente irrazionalità o marginalizzazione di aspiranti kamikaze che possono talvolta essere considerati indipendenti (come forse nel caso di Milano). Altra caratteristica è che privilegia strutture puramente situazionali, che esistono solo durante lo svolgimento dell'operazione: tutto scompare dopo l'attentato, l'invisibilità è la regola assoluta.
La sua matrice ideologica si rifa a una religione universale - in questo caso l'Islam - legandola al superamento di una progettualità politica tradizionale. Diversamente dall'ideologia dei Fratelli Musulmani che si rifanno allo stato islamico, qui i modelli di riferimento sono vaghi, essendo rappresentati da emirati o califfati i cui contenuti e il cui funzionamento non sono mai stati definiti con esattezza dallo stesso diritto pubblico musulmano. Altra caratteristica è che attrae i suoi aderenti da una vasta massa umana, frammentata in ambiti etnici, socioeconomici e culturali molto diversi tra loro.
La nascita spontanea e l'invisibilità delle sue strutture rappresentano veri e propri rompicapi sia per gli analisti sia per gli organismi di sicurezza preposti al controllo, ed evidenziano la difficoltà di risalire ai diversi anelli della catena.
Tutti questi elementi si collocano nel quadro di una vera e propria strategia, basata non tanto su un curriculum e un metodo precisi, quanto sulla combinazione tra la coscienza dell'aspirante kamikaze e l'universo mentale in cui si muove. Questi si è dedicato a un certo tipo di letteratura e può aver frequentato un circolo di manipolatori ideologici, che riescono a trasformare un individuo qualunque in una bomba umana: chi diventa kamikaze si sente parte integrante di una specie di comunità di destino. La letteratura mistico-politica di al Qaida e della sua periferia è alla base della trasformazione della personalità di alcuni segmenti della comunità musulmana, grazie anche all'uso di un linguaggio di tipo performativo, che implica sempre il suo tradursi in azione.
Gli aspiranti kamikaze sono spesso i perdenti dell'integrazione. Dall'ingegnere al disoccupato, li lega una matrice comune: vivono una marginalità psicologica legata alla loro diversità, in un contesto mondiale che esaspera la relazione già tesa fra Islam e Occidente.
La questione della sicurezza in Europa investirà sempre più le grandi questioni dell'integrazione, della coesione sociale, e di come le diversità culturali ed etniche possano confluire nella democrazia. Tutto ciò rappresenta una sfida per le società occidentali - e non solo - se si vuole evitare che avvenga il sogno di Bakunin: che si crei «un esercito invisibile, anonimo e onnipresente».