All'inizio del 2005 Geoffrey Wheatcroft, tra i decani del giornalismo conservatore britannico, concludeva così un libro dedicato alla "strana morte dell'Inghilterra conservatrice" (The Strange Death of Tory England, Penguin Books, 2005): «Oggi i tories potrebbero essere arrivati alla fine della loro storia. Nel corso di molti decenni il partito ha mostrato un feroce istinto di sopravvivenza e un'infinita capacità di reinventarsi, che ora sembrano scomparsi. In questi ultimi anni i conservatori sono sopravvissuti ripetendosi che prima o poi sarebbe tornato il loro turno. In realtà non c'è alcuna necessità che le cose vadano così. Perché non c'è alcuna legge della storia che obbliga un partito a sopravvivere». Cinque anni dopo, a meno di un mese dalle elezioni del 6 maggio, i tories si trovano largamente favoriti da sondaggi e bookmaker nella corsa per Westminster.
Cos'è accaduto dal 2005 a oggi per ribaltare una percezione tanto negativa? Non bastano a spiegarlo, da soli, né l'elezione di David Cameron a nuovo leader né il durissimo impatto della crisi finanziaria sulla società del Regno Unito e dunque sulla credibilità di Gordon Brown. Molto di più ha contato la capacità del "partito naturale di governo" (come è stato definito il partito conservatore per gran parte del Novecento britannico) di liberarsi da quel trauma post-thatcheriano che lo aveva tenuto per tredici anni lontano da Downing Street, impedendogli fin dal 1997 di offrire all'elettorato una ricetta appetibile.
Il merito di questa rinascita ideologica prima che politica è in grande misura di David Cameron. Ma si deve solo in parte al tratto glamour e mediatico di questo giovane leader, che sembra avere imparato alla perfezione i riti della società televisiva (avendo tra l'altro lavorato per sette anni nel gruppo Carlton Communications) e che ama condividere in pubblico le gioie e i dolori della sua dimensione familiare. Assai più di questo, nella resurrezione dei tories ha contato il riposizionamento strategico di un partito che ha finalmente compreso il profondo cambiamento che ha investito la Gran Bretagna negli anni di Blair e che non vagheggia più un ritorno all'età dell'oro di Margaret Thatcher. Quella stessa Thatcher che nel novembre 1990 fu estromessa dal governo non dall'elettorato ma dal suo stesso partito, in un colpo di mano che è poi tornato negli incubi dei suoi eredi come torna la maledizione di un matricidio. Perché i tories si liberarono della Thatcher, imputandole un grado ormai intollerabile di chiusura al dialogo e di ostilità all'Europa, ma fino a Cameron non sono mai riusciti a liberarsi del thatcherismo come visione del mondo alla quale tornare.
Ci provò per primo William Hague, che tra il 1997 e il 2001 fronteggiò senza grandi speranze il primo e più forte ciclo di governo blairiano ricorrendo alla carte (thatcheriane) dell'euroscetticismo e della lotta al crimine. Dal 2001 al 2003 fu il turno del disastroso Iain Duncan Smith, la cui inconsistente leadership cercò di sorreggersi alla retorica (thatcheriana) dei tagli ai servizi sociali e alla spesa pubblica. Andò meglio con Michael Howard che dal 2003 riuscì ad avviare un disimpegno parziale dal nostalgismo thatcheriano, che tuttavia non gli impedì di scommettere sull'allarme sociale contro l'immigrazione clandestina in una campagna elettorale dai toni sostanzialmente xenofobi.
La lunga traversata del deserto percorsa dai tories è ben ricostruita da una monografia dello storico Tim Bale, appena uscita in Gran Bretagna (The Conservative Party from Thatcher to Cameron, Polity Press 2010). Un libro che ha il merito di andare sotto la superficie del "personaggio Cameron", e dunque oltre il suo indiscutibile capitale comunicativo, per guardare ai nodi che la sua leadership ha affrontato con gli strumenti di un navigato mestiere politico. Non è vero, infatti, che Cameron sia un novizio della politica. I suoi primi passi nel partito risalgono agli inizi degli anni Novanta, come funzionario del Conservative Research Department e poi come assistente speciale di Norman Lamont: il ministro dell'Economia di Major il cui nome sarà per sempre legato alla catastrofe del "mercoledì nero" del settembre 1992, che vide il crollo della sterlina e la sua fuoriuscita dal sistema monetario europeo.
L'innovazione fondamentale che Cameron ha introdotto nel partito conservatore è il diverso atteggiamento verso il ciclo di governo neolaburista: dal 2005 ad oggi, come spiega Bale, alla guida dei tories vi è stato «chi ha compreso come Tony Blair, con il suo mix tra crescita economica e giustizia sociale, fosse riuscito a modificare il terreno sul quale l'opposizione doveva muoversi». Il blairismo come trasformazione strutturale del campo politico britannico, dunque, analogamente a quanto era accaduto vent'anni prima con la rivoluzione thatcheriana. Di qui la decisione di Cameron, come ha scritto Lorenzo Valeri, di scommettere su «quei nove milioni di elettori sotto i trent'anni che sanno poco o niente di Thatcher e Major ma tutto di Blair».
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