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Per costruire il nuovo boom del XXI secolo

di Luca Paolazzi

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9 aprile 2010

L'Italia è una nazione ricca. Tra le più ricche al mondo. Per reddito totale e per abitante, diffusione di beni che aiutano a vivere meglio, salute e longevità della popolazione, agiatezza e proprietà delle abitazioni. È tra i leader globali nell'export in molti settori e, nonostante sia piccola, domina quasi il 3,5% dei commerci mondiali.
Sono dati innegabili, risultati di cui andare fieri. Ma non basta indicarli e contemplarli compiaciuti per essere sereni e soddisfatti. Perché non sono un dono divino, caduto dal cielo, ottenuto per grazia ricevuta, una volta e per sempre. Sono conquiste faticosamente raggiunte lungo l'arco della storia unitaria e, soprattutto, nel quarto di secolo del miracolo economico e degli anni subito successivi, tra la fine della seconda guerra mondiale e il primo shock petrolifero.

Poi lo straordinario motore dello sviluppo ha iniziato a perdere colpi. I guasti via via più gravi sono stati per due decenni nascosti dalla droga della svalutazione del cambio (cioè dallo svilimento della moneta) e dal gonfiarsi del debito pubblico. Anche queste erano bolle – come va di moda chiamarle adesso – che sono scoppiate al principio degli anni 90, quando ormai quei percorsi devianti erano diventati insostenibili, in sé e perché ci stavano sempre più allontanando dal resto dell'Europa.

Ne sono seguiti altri due decenni, questa volta di bassa crescita, non solo nel confronto internazionale ma anche (per chi non ama prendere a benchmark gli altri paesi) rispetto alla nostra storia e soprattutto alle nostre potenzialità. Durante i quali il Pil pro capite è aumentato poco e addirittura è arretrato in termini reali del 4,1% tra il 2000 e il 2009. Un monito del fatto che non siamo diventati ricchi per sempre.

Se è vero che oggi gli scenari non appaiono facili per nessuno dei grandi paesi avanzati e che in tutti si sono riaperti i cantieri delle riforme, tuttavia il rischio per l'Italia è di trovarsi a crescere ancor meno di prima, come esito infausto della crisi che distrugge capacità produttiva e impoverisce il capitale umano. E il sistema istituzionale italiano improntato al corporativismo frena quei cambiamenti strutturali che sono da anni necessari e che altrove vengono più rapidamente introdotti.

La priorità, dunque, come hanno indicato Guido Tabellini e Giorgio Barba Navaretti sul Sole 24 ore del 2 aprile, è tornare a crescere. Non solo, e perfino non tanto, per aumentare la ricchezza materiale. In fondo, si sente spesso dire, ci potremmo anche accontentare. Un canto ammaliante con molti padri nobili. Ma anche e soprattutto perché quando l'economia va male, la società incattivisce, vengono meno solidarietà e tolleranza, le persone si trincerano a difesa degli interessi particolari, perfino la democrazia ne è minacciata.
In questo senso, libertà e benessere sono legati a doppio filo. Più libertà crea maggior benessere, non solo economico. Maggior benessere porta più libertà, sostanziale e non solo formale, e in senso ampio.

Una società aperta al nuovo, culturalmente vivace, mobile, che premi il merito e sia rispettosa della legalità, fa fiorire i talenti e aumenta la voglia di prendersi rischi, di scommettere sul futuro. Tutto ciò porta a una crescita più elevata. Mentre, all'opposto, un'economia stagnante induce la società a ripiegarsi su se stessa, a chiudersi, tarpando ulteriormente le ali allo sviluppo economico e, di conseguenza, civile. Un pericoloso circolo vizioso, che può essere spezzato solo intraprendendo con decisione la strada delle riforme, dei mutamenti strutturali. Il binomio libertà e benessere è cruciale per capire la reale posta in gioco. Perciò su di esso fa perno il convegno biennale del Centro studi Confindustria che si apre oggi a Parma.
Non esiste una condanna biblica a non crescere. Né c'è un unico scenario possibile per i prossimi anni, quello vincolato dagli alti debiti, pubblici o privati che siano. Perché le fonti originali della crescita, cioè innovazione e allargamento dei mercati, sono intatte e continuano a costituire la «natura e le cause della ricchezza delle nazioni».

L'Italia possiede le risorse per cogliere queste opportunità. Purché vengano liberate, sapranno tornare a far aumentare il benessere.

9 aprile 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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