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IL PUNTO / Se si rompe il tabù della legge elettorale meno alibi per Pdl e Pd

di Stefano Folli

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9 aprile 2010

Non sappiamo se l'Italia diventerà presidenziale, semi-presidenziale, con un premier più forte o nulla di tutto questo. Al momento nel discorso sulle riforme prevale la nebbia più spessa. Bisogna tuttavia dare atto a Gianfranco Fini di aver rotto un tabù sul quale il centrodestra aveva sempre glissato. Il tabù della legge elettorale.

Il presidente della Camera, parlando ieri in un seminario di «Farefuturo», ha detto una semplice verità: va bene discutere di una repubblica semi-presidenziale «alla francese», ma è ovvio che a un tale mutamento istituzionale deve accompagnarsi un modello elettorale adeguato. In Francia esiste l'uninominale maggioritario a doppio turno, il più idoneo a sostenere quell'assetto. Da noi viceversa è in vigore un sistema (ribattezzato ironicamente il «porcellum») che scontenta tutti tranne le segreterie dei partiti, visto che sono queste ultime a «nominare» i parlamentari grazie al meccanismo delle liste bloccate.

È una contraddizione che va sciolta, sebbene la maggioranza abbia fin qui schivato il problema con l'argomento che la legge elettorale non è materia costituzionale, bensì ordinaria; e come tale sarà discussa solo al termine del lungo iter riformatore.

Al contrario, Fini ha stabilito un nesso diretto fra il rinnovamento costituzionale e la legge elettorale. In questo modo ha ottenuto due risultati. In primo luogo, ha reso evidente che all'interno del centrodestra non è ancora maturato un chiaro indirizzo. Al di là dei risvolti mediatici e delle buone intenzioni, il rapporto di lealtà/rivalità fra Berlusconi e Bossi non ha fin qui sciolto i dubbi sul «che fare». E quindi, nel giorno in cui il presidente della Camera mette sul tavolo la questione del modello elettorale, tutti sono obbligati a definire meglio le posizioni.
Non bisogna dimenticare, ad esempio, che ancora ieri un esponente autorevole del Pdl come il senatore Quagliariello spezzava una lancia a favore del «premierato forte». Ossia la tesi più gradita nel campo del centrosinistra, che ne ha fatto uno dei passaggi chiave della cosiddetta «bozza Violante». Con un po' di malizia si potrebbe dire che sono in molti, a destra, gli aspiranti architetti dell'ipotetico accordo con un Pd peraltro imperscrutabile e scettico. Diffidente verso la «grande riforma» quasi quanto Berlusconi che sembra credere poco agli sforzi in atto e semmai si prepara ad affrontare i temi economici (non a caso il premier parlerà a Parma al convegno della Confindustria).

Del resto, la mossa di Fini - ed è il secondo punto - aiuta l'opposizione a rientrare in gioco. È vero che il partito di Bersani deve ancora decidere se e come partecipare alla partita in corso. Ma l'argomento della legge elettorale è un bel tema per sedersi al tavolo del negoziato. Purché non se ne voglia fare un uso solo strumentale e tattico, cioè di pura interdizione. Collegandola invece al riassetto dello Stato (semi-presidenzialismo, premierato forte), la bandiera della riforma elettorale permetterebbe al Pd di confrontarsi in campo aperto con il fronte Pdl-Lega. Anche per mettere a fuoco quali sono i giochi all'interno della maggioranza, quali i margini di equivoco. E fino a che punto Bossi è disposto a muoversi, se necessario, anche in autonomia da Berlusconi.

Senza dubbio il Pd non può permettersi di restare inerte, ai margini di un processo che sta iniziando. Come ripete il capo dello Stato, la legislatura non può essere sprecata. Ciò che è realizzabile, va realizzato.

9 aprile 2010
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