Sarà perché la stagione è la meno propizia, visto che siamo in campagna elettorale (regionale, e dunque attenta anche al "territorio"). Sarà perché, come accade spesso in Italia, la politica i problemi li insegue più che prevenirli. Sarà perché una sorta di riflesso condizionato diffuso e collettivo rende più agevole il ricorso a vecchi schemi di confronto, più fondati sulle impressioni, e sulle rispettive convinzioni delle parti in causa, che sui numeri. Sarà, insomma, per questi e molti altri motivi, ma è un fatto che la discussione sul Mezzogiorno scaturita dai casi Fiat-Termini Imerese e Alcoa ha mostrato il suo volto peggiore. Quello, caratteristico del dibattito sul Sud in crisi in attesa di rilancio, fermo a metà strada tra piagnistei, miracolismi, ripicche e fumosità varie che si sommano e si sovrappongono.
Ne esce un quadro opacamente malmostoso. Esemplare, l'incontro-scontro sugli aiuti alla Fiat, dove gli incentivi all'acquisto di automobili sono confusi con altre forme d'interventi pubblici "a sostegno" di cui ha beneficiato la casa automobilistica, soprattutto nel suo passato di "monopolista" ben protetto. Il ballo delle cifre è stato violento, ma il discorso sulla contabilità storica del dare e dell'avere di Fiat è tema complesso e per certi versi meno scontato di quello che si pensi, come dimostra l'indagine di Luca Germano per il periodo 1998-2007 contenuta nel suo libro Governo e grandi imprese (il Mulino, 2009). In pratica, Fiat avrebbe ricevuto dallo Stato 1,9 miliardi e ne avrebbe dati 2,9.
Esemplari, ancora, sono i generici richiami, che prescindono dalla realtà dei mercati e della competizione, alle responsabilità sociali delle imprese o le affermazioni tipo quella, ricorrente, che in Sicilia «si deve continuare a produrre automobili». O quelle che riguardano le più fantasiose alternative per Termini Imerese o per altre realtà in crisi, che a loro volta ricalcano copioni ingialliti: il Sud come la California o «piattaforma logistica» del Mediterraneo, forse dimenticando il binario unico ferroviario che ancora solca il Meridione. Silenzio, al contrario, sul fallimento storico dei contratti di programma o di area e dei patti territoriali o sulle lotte locali per accaparrarsi questo o quel sostegno nazionale o europeo.
Invece, questa dovrebbe essere l'occasione per ragionare in termini nuovi e diversi. Anzi, si dovrebbe ripartire da zero. Ha detto il premier Silvio Berlusconi, parlando della possibilità di un accordo Telecom-Telefonica: «Siamo un governo liberale e viviamo, e crediamo sia giusto così, in un'economia di mercato». Bene, ricominciamo dal metodo della "contabilità liberale" che affiora da Il sacco del Nord (Guerini e Associati) in cui il sociologo Luca Ricolfi ci spiega che ogni anno 50 miliardi traslocano, ingiustificatamente, da Nord a Sud. Oppure dal saggio La scossa (Rubbettino) di Francesco Delzio in cui si chiede di mettere fine alla stagione dei trasferimenti diretti alle imprese. O dalla proposta dell'Istituto Bruno Leoni di fare del Mezzogiorno una vera "no tax region", dove il reddito d'impresa non viene tassato.
Tutte idee e analisi forti. Forse troppo? Ripartire da zero significa anche questo, e il Sud ne ha un gran bisogno per crescere, soprattutto ora che viene a maturare il frutto del federalismo fiscale.
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