All'inizio di marzo Silvio Berlusconi lanciò l'idea del piano casa. Fu accolta dall'entusiasmo del centro-destra, dallo scetticismo di molti operatori, dall'opposizione pregiudiziale del centro-sinistra, dalla resistenza dei governatori, gelosi delle proprie competenze. L'obiettivo era utilizzare la costruzione della stanza in più per ogni villetta come antidoto diffuso (e a costo zero per lo Stato) contro la congiuntura economica negativa.
Alcuni istituti di ricerca indipendenti ragionarono sull'impatto potenziale del piano casa come concepito da Berlusconi e, pur usando ipotesi di base prudenti, i numeri confermarono che l'impatto poteva davvero essere molto forte. Un'indagine del Cresme parlava di una spesa aggiuntiva tra 50 e 60 miliardi, pari al 35% del mercato dell'edilizia abitativa in Italia.
Un mese dopo, per aggirare l'opposizione delle regioni, formalmente ineccepibile, il governo fece un accordo quadro con la conferenza dei presidenti delle regioni: la competenza legislativa sugli ampliamenti di volumetrie era loro e a loro veniva riconosciuta. Al governo sarebbe rimasto un provvedimento per accelerare le procedure realizzative degli interventi, per il resto era necessario passare per le leggi regionali, con un duplice effetto: un inevitabile rallentamento dell'operazione e una diversificazione di regole sul territorio.
Il termometro degli istituti di ricerca registrava, a questo punto, un primo raffreddamento. Quando le regioni avrebbero approvato? Con quali paletti? Con quale spirito? Domande che non avrebbero tardato a trovare un riscontro nella realtà dei fatti. È vero, il termine di 90 giorni per il varo delle leggi regionali avrebbe indotto i governatori a fare in fretta. Ma la democrazia è un gioco complesso e non sempre i consigli regionali condividono le priorità (non si sa quanto sincere) dettate dalle giunte per altro su input del governo. Risultato: alla scadenza avevano approvato solo la Toscana e l'Umbria, due regioni "rosse", per altro.
Paradossalmente, però, l'idea berlusconiana, pur rettificata secondo le strategie locali, aveva conquistato il cuore dei governatori. In ritardo, forse, per l'obiettivo di alleviare un po' la crisi e la disoccupazione nel settore edilizio.
Vediamo il bilancio a oggi. Mancano ancora quattro regioni all'appello della legge (Campania, Molise, Calabria e Sicilia) mentre la provincia autonoma di Trento ha votato per escludere qualunque piano. Sono stati tutti richiamati ad accelerare dal consiglio dei ministri di venerdì scorso. Molti comuni, a loro volta, hanno accolto i provvedimenti regionali con resistenza: nella patria del campanile c'è sempre qualcuno che ha da distinguersi. In tutte le leggi regionali, il termine per la presentazione è posto almeno a 24 mesi. In alcuni casi l'intervento cambia pelle totalmente e diventa a regime, senza più alcuna scadenza. In generale, un termine di 24 mesi non invita proprio i cittadini ad accelerare in un momento di incertezza e di difficoltà economiche. Meglio aspettare. Quanto al governo, sempre pronto a tirare le orecchie alle regioni, non ha mai approvato il decreto legge che avrebbe dovuto accelerare le procedure.
Se si dovesse guardare il piano casa con l'obiettivo iniziale del presidente del consiglio di ammortizzare la crisi, dovremmo concludere che siamo ormai fuori tempo massimo. Prima dell'estate 2010 non si vedrà granché sul piano della spesa effettiva, c'è da giurarlo. L'effetto reale del piano casa si vedrà quando la crisi sarà passata o almeno attenuata (si spera). Nessun beneficio anticongiunturale a breve, quindi. Resterà al piano casa e a Berlusconi il merito di aver dimostrato ancora una volta quale paese ingessato sia l'Italia, incline al campanilismo, alle decisioni lente, alla vittoria delle burocrazie. E anche il merito di aver butatto giù una parte di queste resistenze.