Molti continuano a misurare la gravità della crisi mondiale e il suo impatto sulle diverse economie nazionali unicamente in termini di caduta del Pil. Ma il Pil non soltanto fatica sempre più a riflettere il livello di benessere dei sistemi economici, come ha ribadito il rapporto della commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi, ma si rivela anche sempre più inadatto a cogliere le sfaccettature di una recessione mondiale in cui i paesi in realtà si dividono, a nostro avviso piuttosto chiaramente, in malati gravi e altri meno gravi. Peccato però che secondo il termometro convenzionale del Pil tra i primi vi siano il Giappone (-5,4% l'ultima stima dell'Fmi per il 2009), la Germania (-5,3%) e l'Italia (-5,1%) e tra i secondi gli Stati Uniti (-2,7%), la Spagna (-3,8%) e la Gran Bretagna (-4,4%). Mentre è vero esattamente il contrario.
È del tutto evidente, infatti, che la più forte caduta del Pil di Giappone, Germania e Italia dipende principalmente dalla temporanea paralisi del commercio mondiale. Indubbiamente la frenata delle esportazioni imporrà a questi paesi aggiustamenti delle capacità produttive e dolorose ristrutturazioni ma, quando la ripresa si manifesterà, Giappone e Germania ricominceranno a produrre auto ed elettronica come sanno fare meglio di chiunque altro al mondo e a esportare i loro prodotti con successo. E lo stesso farà l'Italia con la sua meccanica e i suoi beni per la persona e la casa. È più difficile invece che il settore delle costruzioni possa ricominciare a trascinare il Pil della Spagna come è avvenuto artificiosamente negli ultimi dieci anni o che la finanza torni a essere quel potente motore truccato delle economie americana e britannica che è stato dal 2002 in poi. Perché il tempo delle bolle immobiliari e finanziarie è finito. Così come quello dei consumi finanziati a debito che hanno caratterizzato la recente crescita non sostenibile di questo secondo gruppo di paesi.
Dunque non il Pil ma altri dovrebbero essere in questo momento gli indicatori più corretti per comparare il reale grado di gravità della crisi che ha colpito le diverse economie: ad esempio, l'aumento della disoccupazione o la caduta dei consumi e della ricchezza netta delle famiglie. Già poco prima dello scoppio della recessione l'Economist invitava a guardare alla crescita del tasso di disoccupazione considerandolo come l'indicatore più sensibile dell'imminente peggioramento del quadro economico («Redefining recession», 13 settembre 2008). E il settimanale britannico ricordava con ironia il vecchio detto secondo cui se il tuo vicino perde il lavoro è in atto un rallentamento congiunturale, se sei tu a perderlo è cominciata una recessione, mentre se lo perde un economista siamo sprofondati in una depressione. Mettendo in guardia proprio gli economisti, perché se avessero sottovalutato da quel momento in poi il crescente deteriorarsi dell'occupazione avrebbero allora effettivamente meritato di essere "licenziati".
Ebbene, se aggiornassimo quell'analisi dell'Economist per valutare oggi i paesi in più forte recessione e quelli meno colpiti dovremmo constatare che tra giugno 2008 e giugno 2009 il tasso di disoccupazione della Germania è cresciuto solo del 5,5% e quello dell'Italia del 10,4%, mentre nelle economie ben più malate d'America, di Spagna e di Inghilterra l'incremento del tasso di disoccupazione è stato, rispettivamente, del 71%, 66% e 45%. Una diagnosi diametralmente opposta a quella fornita dal Pil.
Lo stesso vale per i consumi delle famiglie, che stanno chiaramente evidenziando una forbice. Infatti, nel secondo trimestre 2009 essi sono cresciuti dello 0,3% in Italia rispetto al trimestre precedente e dello 0,7% in Germania, mentre sono diminuiti ancora dello 0,2% negli Stati Uniti, dello 0,6% in Gran Bretagna e dell'1,6% in Spagna. Dal secondo trimestre 2008 al secondo trimestre 2009 i consumi delle famiglie sono calati cumulativamente dell'1,8% in Italia, mentre sono addirittura diminuiti del doppio in Gran Bretagna (-3,6%) e di oltre il triplo in Spagna (-5,9%). Anche in questo caso ci troviamo di fronte a uno scenario che è l'esatto contrario di ciò che appare dalla semplice comparazione dei Pil nazionali.
Un altro indicatore complementare al Pil che sta guadagnando crescente attenzione sia nell'ambito delle analisi strutturali sia sotto il profilo delle indagini congiunturali è quello della ricchezza netta delle famiglie.
La ragione è molto semplice: così come in un'impresa non si deve mai guardare solo al conto economico ma anche allo stato patrimoniale (nel senso che il primo può anche andar bene per un anno o due ma se poi l'azienda ha accumulato troppi debiti alla fine rischia di fallire), così anche nel giudicare l'andamento di un sistema economico non è possibile prestare attenzione soltanto alla produzione annua del reddito e alla sua crescita, perdendo di vista magari altri aspetti cruciali come lo stato del debito pubblico o il deterioramento dei conti finanziari delle famiglie (fattore che può essere persino più insidioso del debito pubblico, come ha dimostrato questa crisi).
Nell'ambito delle analisi strutturali sulla ricchezza spicca lo studio del 2007 del World institute for development economics research dell'Università delle Nazioni Unite di Helsinki (Unu-Wider), svolto dal gruppo di lavoro di Davies, Sandstrom, Shorrocks e Wolff. Questo studio ha preso in esame 150 paesi per i quali è stata stimata la ricchezza netta pro capite delle famiglie (composta dalle attività reali, tra cui la casa e i terreni, più le attività finanziarie al netto delle passività finanziarie). I dati si riferiscono al 2000 e sono espressi in dollari internazionali a parità di potere di acquisto.
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