A chi giova aprire e alimentare il conflitto istituzionale? Sulla carta non dovrebbe convenire a nessuno. Men che meno a Berlusconi. Conflitto istituzionale vuol dire paralisi nell'azione di governo, tensione alle stelle, gravi rischi di lacerazione civile in un paese già in affanno. Che il presidente del Consiglio sia amareggiato e irato, è persino comprensibile: si aspettava ben altro giudizio dalla Corte.
La clamorosa bocciatura del lodo lo ha ripiombato nelle antiche angosce, nella paura quasi incontrollabile di finire vittima di un «golpe» strisciante. Fin qui si può capire, conoscendo la psicologia del personaggio. È il passo successivo a suscitare inquietudine. L'attacco distruttivo nei confronti di Giorgio Napolitano è privo in apparenza di logica politica. Per una ragione evidente. Mai come ora il premier ha bisogno di un equilibrio all'interno del quale ritrovare un minimo di stabilità. Più che di nemici presunti, intravisti in ogni dove (al Quirinale, nella magistratura, nei giornali), Berlusconi ha bisogno di interlocutori affidabili. Almeno fino all'incidente del 7, Napolitano lo è stato. Magari potrebbe tornare a esserlo, una volta smaltiti gli effetti dello scontro. Purchè non si continui a soffiare sul fuoco.
Sotto questo aspetto, ieri sono accadute due cose. La prima è l'incontro al Quirinale in cui i due presidenti delle Camere hanno espresso il loro rispetto al Capo dello Stato e gli hanno dato atto del suo ruolo costituzionale. Non si poteva immaginare niente di meno, dopo le sferzanti accuse berlusconiane. Ma vale la pena sottolineare la sobrietà del presidente, che ha evitato di replicare agli ultimi attacchi. In secondo luogo, la nota congiunta di Fini e Schifani contiene anche un richiamo alla «lealtà fra istituzioni », dove si sottolinea che «gli organi di garanzia» devono operare «in aderenza al dettato costituzionale e alla volontà del corpo elettorale».
Un passaggio inusuale (o ambiguo), questo accenno alla volontà degli elettori messa sullo stesso piano del dettato costituzionale: in realtà è un aiuto dato a Berlusconi e alla sua tesi secondo cui «l'eletto del popolo» merita un rispetto particolare. Quel rispetto che il presidente del Consiglio- dopo il colpo della Consulta - lamenta di non avvertire, pur essendo «l'unico eletto direttamente dal popolo tra i vertici istituzionali». E' un argomento discutibile (nonostante tutto, il premier riceve ancora il suo mandato dal Capo dello Stato e non dal corpo elettorale), ma il senso è chiaro. Napolitano e i due presidenti si sono adoperati per abbassare la tensione, dopo che già ieri mattina Fini aveva invitato il presidente del Consiglio a moderare i toni.
Il secondo fatto della giornata, solo in apparenza minore, è la rinuncia berlusconiana a qualsiasi manifestazione di piazza. E' stato il premier a prendere la decisione, rendendosi conto che in questo clima sarebbe solo un errore aggiunto ad altri errori. Chiamare i simpatizzanti nelle strade avrebbe innescato nuove fratture. Quindi anche Berlusconi sembra voler prendere tempo. Di buon mattino, alla radio, aveva detto: «Gli italiani vedranno di che pasta sono fatto». Ma in serata cessavano gli attacchi al Quirinale, si escludevano elezioni, si negava l'ipotesi della manifestazione. Nelle stesse ore, il ministro Calderoli esprimeva a sua volta rispetto verso il Capo dello Stato. Ma è troppo presto per dire che la tensione è superata: le macerie sono consistenti e l'offensiva contro la Consulta continua.