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La lunga estate del greggio

di Mario Margiocco

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5 agosto 2009

di Mario Margiocco



Come viaggiatore senza bussola in terra incognita, scottato dalla precedente fede nella razionalità dei mercati, l'homo oeconomicus cerca di decifrare i segnali e gli ultimissimi dicono che il dollaro perde terreno e le materie prime, di per sé segnale di ripresa, avanzano. Certo anche perché il dollaro, che ne esprime il prezzo reale e nominale, perde valore. Ma non solo. Ripresa? Speculazione? Fiammata estiva o tendenza duratura? Aspettative d'inflazione? Estrazione in calo, per petrolio e minerali? Raccolti difficili? Da quasi un anno monopolizzata dalla finanza e dalla sua crisi, l'attenzione deve ora tornare anche su altri fronti dell'universo economico. Di crisi non siamo morti, ed è il momento di guardare anche oltre. Senza dimenticare lo sforzo immane che le finanze pubbliche hanno impegnato nell'opera di salvataggio, uno sforzo che fu pari all'8% del Pil mondiale nei primi anni 30, ed è stato pari al 28% - secondo calcoli del primo ministro australiano Kevin Rudd - nel 2008-2009. Un trionfo keynesiano, per ora.
«Se si va oltre - ha detto parlando del prezzo del petrolio Fatih Birol capo economista dell'Aie, l'agenzia Ocse per l'energia, e con il target massimo attorno ai 70 dollari di nuovo raggiunti ora dopo un mese - se vediamo i prezzi andare molto oltre, potremmo vedere che questo rallenta e strangola la ripresa economica». Il greggio in questi giorni veleggia intorno ai massimi dell'anno, sopra i 70 dollari al barile. È dal 14 luglio, quando la chiusura fu poco sopra i 59 dollari, che resta alto, anche se molto lontano dai record stratosferici - e altamente speculativi - di 147 dollari del luglio 2008.
Al G-8 dell'Aquila il presidente francese Nicolas Sarkozy e il premier britannico Gordon Brown avevano invitato a controllare i mercati energetici e le attività speculative. Negli Stati Uniti la Cftc, l'ente che ha la supervisione dei mercati delle commodities, ha avviato le audizioni su episodi passati e rischi di speculazione eccessiva.
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Una ripresa della produzione in Cina, e in parte anche in Europa, in Germania soprattutto, una rallentamento meno pronunciato negli Stati Uniti, giustificano movimenti dei prezzi, anche del rame che è raddoppiato nel 2009. Ma non spiegano più di tanto. Il tentativo di grossi operatori di gettare come al solito il cuore oltre lo steccato - il solito rapporto della solita Goldman Sachs parlava due mesi fa di un petrolio a 85 dollari - aggiunge la sua quota. Così come per il petrolio conta il forte calo degli investimenti in ricerca ed estrazione. E il dollaro, che deprezzandosi, o rischiando di farlo, spinge al rialzo i prezzi nominali in dollari. Il petrolio è il caso storico.
Martin Feldstein di Harvard spiega con chiarezza (a pagina 11) che il dollaro rimarrà debole a lungo. Troppo debito estero. Troppa necessità di ricreare una massa sufficiente di risparmio interno scoraggiando le importazioni. Troppi rischi futuri d'inflazione. Insomma, la fine per ora del grande consumatore americano.
Ora, se il consumatore cinese non è ancora pronto, se quello europeo resta prudente come già è stato negli ultimi 15 anni e in tempi quindi migliori, da dove può venire la grande domanda capace di far correre davvero e a lungo petrolio e materie prime? Ci sono tre grandi mercati, Nordamerica, Europa e Asia continentale, e tutto il resto è periferia. La realtà, ricordava nei giorni scorsi Nassim Nicholas Taleb, l'ex trader di Wall Street autore di The Black Swan, il cigno nero ad alta improbabilità ma sconvolgente, è che il mondo ha da digerire tra i 40 e i 70mila miliardi di dollari di debiti, e fino a quando una parte consistente non sarà digerita, tutto sarà più difficile, senza impennate vere, senza riprese a V, ma solo una possibile seria rimessa in movimento di una macchina alla quale si era chiesto troppo.

mario.margiocco@ilsole24ore.com

5 agosto 2009
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