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Il mago Obama ritorna sulla terra

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2 agosto 2009
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama (AP / LaPresse)

di Gianni Riotta


Il primo presidente americano, Washington, considerava la sua carica «come una condanna al patibolo», il saggio Jefferson parlò di «splendida miseria» e il pratico Truman chiamava la Casa Bianca «galera verniciata di bianco». «È il luogo più solitario del mondo» ammonì Taft lasciando la presidenza a Wilson. Ogni presidente impara la lezione, spente le luci della vittoria, placati gli applausi, incalza la cronaca e la storia la segue implacabile.

Ora la grande solitudine tocca a Barack Obama. Non tutti i presidenti la scontano, Reagan e Clinton non smisero mai di amare il lavoro, neppure nei giorni agri del mandato. Difficile dire se Obama saprà cavarsela con la loro bonomia e serenità, ma di certo l'autunno e l'inverno definiranno la sua presidenza.
Un anno fa, e fino a settembre, il senatore democratico Obama era in parità con lo sfidante repubblicano e collega al Senato McCain nei sondaggi elettorali. E, con il presidente uscente Bush al massimo di impopolarità, gli analisti si chiedevano come mai il vantaggio dei democratici non fosse netto. Fu la crisi finanziaria a persuadere gli americani che era arrivata l'ora di voltar pagina. E Obama vinse con un mandato forte.

L'antipatia profonda che molti europei han provato per il presidente Bush ha nascosto, nell'entusiasmo per il carismatico Barack, il valore che l'ha portato alla vittoria dopo la crisi. La proposta di una politica nuova, per il XXI secolo, dove la rissa faziosa lasciasse il posto a un discorso pacato e raziocinante, capace di trovare valori e soluzioni comuni al di là degli schieramenti.
Dopo anni di guerra culturale tra liberal e conservatori, per tanti elettori l'invito di Obama a entrare nel dialogo post ideologico del futuro ebbe l'effetto di un balsamo e per una fase non breve il presidente se n'è giovato. Ora la magia è finita e Obama sconta il faticoso passaggio dalla retorica alla realtà. Non è solo la riforma sanitaria ad avere riportato il presidente sulla terra, o lo scetticismo di tanti cittadini sulle ricette economiche democratiche o sui metodi da professoressa di matematica severa della presidente della Camera Nancy Pelosi.

È l'ansia, nel vivo di una crisi che dopo la finanza va a mordere il lavoro, negli Usa come in Europa, che non bastino le parole eleganti e la buona fede squisita del presidente a ridare forza al paese.
Se la riforma sanitaria s'è fermata al Congresso non si deve ai democratici conservatori, i cosiddetti Cani Blu, nè alle requisitorie dei conservatori alle radio "Obama è un socialista!", nè infine, solo, alle formidabili lobby della sanità. È che il presidente non ha saputo ancora coniugare la sua dote oratoria con la paziente, cocciuta, quotidiana pratica politica che dalla Casa Bianca lascia filtrare le grandi riforme al Congresso e poi le fa accettare dall'opinione pubblica. Quel che ha distinto i presidenti capaci di risultati, Roosevelt, Truman, Kennedy, Johnson, Nixon, Reagan, Clinton, da quelli che han visto le speranze sfumare in fretta è l'arte di essere propagandisti di un messaggio e insieme pragmatici scalpellini del consenso, definendolo voto dopo voto, alla Camera, al Senato, nel paese e nel mondo.

I discorsi di Obama, sull'aborto, la fede religiosa, sul Medio Oriente e le responsabilità degli afroamericani, fino alla birra bevuta alla Casa Bianca per sedare la rissa tra lo studioso afroamericano di Harvard, Skip Gates, e il poliziotto bianco che lo ha arrestato dopo un equivoco definito da qualcuno razzista, sono encomiabili prove di carisma. Ma una riforma sanitaria, un accordo tra israeliani e palestinesi, vere nuove regole finanziarie che non irritino verso il populismo gli elettori poveri nè danneggino il mercato Usa, richiedono più di un animo candido e una dote oratoria. Il presidente deve spingere e convincere, stringere alleanze e compromessi, innestare la marcia indietro dove non passa, fare la voce grossa e sorridere, dire dei no, perdere dei punti, farsi ferire nella personalità, rinunciare alla perfezione del sogno per un povero, concreto, utilissimo e magari non bello da vedere risultato concreto.

Allora l'opinione pubblica Usa, che tanta fiducia come quella mondiale ha fin qui dato al giovane leader, comprenderà davvero e accetterà la politica del XXI secolo come dialogo al di là delle fazioni. Se le virtù retoriche del presidente non riveleranno, presto, un analogo virtuosismo nella quotidiana cucina politica la reazione sarà cinica. A destra cresceranno risentimento e diffidenza, a sinistra delusione ed estremismo. Al presidente potrebbe magari essere utile il ruvido motto in latino maccheronico che le spie inglesi della Seconda guerra mondiale regalarono al generale Joe "Aceto" Stilwell e che da allora fa il giro di Washington: "Illegitimi non carborundum", non farti mai logorare dai bastardi.

gianni.riotta@ilsole24ore.com

2 agosto 2009
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