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PIT STOP / Non ci sarà mai più il Pil di una volta

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4 agosto 2009

di Guido Gentili


Tramonta il Prodotto interno lordo come indicatore di crescita e sviluppo di un paese? Non è questione di domani, ma che il "declino" del Pil sia cominciato è un fatto. Come dimostrano due scelte destinate ad avere effetti in questa direzione. Per settembre si attendono le conclusioni della Commissione Stiglitz voluta da presidente francese Sarkozy per riformulare gli indici del benessere. Commissione autorevole, che comprende i nomi del premio Nobel Amartya Sen e dell'italiano Enrico Giovannini, dal 2000 capo dell'ufficio statistico dell'Ocse e chiamato ora dal governo italiano a presiedere l'Istat. E Giovannini è uno degli studiosi che più puntano sulla misurazione del benessere soggettivo delle persone.
Per la verità, la ricerca di indici meno "freddi" di quello del Pil (che misura il valore complessivo dei beni e dei servizi prodotti da un determinato paese in un dato periodo di tempo, generalmente un anno) non è nuova e può prestarsi anche a letture ideologiche. Non sono pochi, ad esempio, i sostenitori della "decrescita", in nome dell'ambientalismo e della "sostenibilità" dello sviluppo. Si tratta in questo caso di un'operazione che non riguarda la riforma degli indici per qualificare meglio il significato della ricchezza di un paese. Piuttosto, con la critica al Pil si celebra un processo politico, dove il "colpevole" è alla fine sempre lo stesso, il sistema capitalista e le leggi di mercato, che tutto (e tutti) mercificano e mortificano.
A sua volta, non ha senso fare del Pil una trincea invalicabile. Perché, in effetti, una cifra non rappresenta da sola l'indice di progresso di un paese. Robert Kennedy, che certo non era un "anticapitalista", tre mesi prima di essere assassinato pronunciò nel 1968 uno storico discorso sull'inadeguatezza del Pil come indice di benessere. Il Pil, disse, «non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia nei loro momneti di svago. Non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, la nostra conoscenza, la nostra compassione, la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta».
Passati quarant'anni, nel pieno di un controverso processo di globalizzazione e di una crisi che ha evocato il crollo del 1929, eccoci di nuovo a ragionare (compresi il codice di global standard sui cui hanno insistito la presidenza italiana al G-8 dell'Aquila e l'enciclica pro-crescita demografica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI) sulle ricchezze dei popoli. Con l'indicatore Pil sotto pressione.
Superare questo indice non è facile e presuppone un accordo internazionale. Basta pensare ai parametri europei di Maastricht e ai rapporti (deficit e debito) che fanno riferimento al Pil. Però il dibattito è aperto, sedi europee comprese, e va prendendo sempre più corpo. In campo ci sono già diversi nuovo indici (l'Isu, indice di sviluppo umano, l'Isew, che misura il benessere economico sostenibile, il Gpi, indice di progresso genuino, l'Ef, che misura l'impronta ecologica) e l'Italia ha interesse a battere questa strada. Si pensi al suo straordinario patrimonio artistico e culturale o alla sua fitta rete di rapporti associativi, professionali, familiari e no-profit che un numero secco non riesce a rappresentare.
guido.gentili@ilsole24ore.com

4 agosto 2009
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