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Pragmatica altalena tra Stato e mercato

di Orazio Carabini

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29 marzo 2009

La formula è quella lanciata da Giulio Tremonti a Padova il 14 luglio del 2007. Una formula «empirica» come la definì egli stesso: «Market if possible, government if necessary». Una magia, un'alchimia.
«Una formula politica – disse Tremonti ai giovani di Forza Italia – di tipo non universale, ma all'opposto, di tipo particolare. Una formula che mira a soluzioni ad hoc, basate sull'equilibrio dinamico tra princìpi diversi e tra di loro potenzialmente opposti». Il nuovo Popolo della Libertà riparte da lì, dalla formula di Tremonti. Rafforzata dagli eventi successivi (la crisi finanziaria) che hanno trasformato la critica al "mercatismo" del ministro in slogan di culto. Con la successiva elaborazione che ha riportato in auge l'economia sociale di mercato della Germania di Konrad Adenauer.

Il Pdl non sarà il partito liberale di massa cui i fondatori di Forza Italia erano convinti di poter approdare, come ha spiegato Giuliano Urbani (vedere l'intervista di Fabrizio Forquet sul Sole 24 Ore di giovedì). Anche se Silvio Berlusconi, aprendo il congresso venerdì, ha detto che «la nostra è una rivoluzione liberale, borghese e popolare, moderata e interclassista che colma un vuoto nella storia italiana».
«Il Pdl – osserva Gianni De Michelis che è stato a lungo nel centro-destra prima di aderire alla Costituente del nuovo partito socialista - è figlio di Berlusconi, della sua lettura della società italiana, con intuizioni spesso molto più valide delle sofisticate analisi della sinistra. I quadri del partito non hanno autonomia politica e non influenzano il progetto. Anche l'economia sociale di mercato, nella versione di Tremonti e di Maurizio Sacconi, è declinata all'interno dei confini del berlusconismo».

Ma come si può riassumere la visione, il progetto del Pdl nell'economia? «Visione? Quale visione? – obietta Giorgio La Malfa, che nel piccolo Partito repubblicano avversa la linea di chi vuol confluire nella nuova forza politica –. La visione come si concepiva prima della caduta del Muro di Berlino non esiste più. Non si può dire che Gordon Brown e Barack Obama abbiano una visione. Economia sociale di mercato è un'espressione vuota. Quello di Berlusconi è un modello ibrido, keynesiano: un po' di Stato, un po' di mercato. La versione di Tremonti non gli fornisce una piattaforma. E comunque Berlusconi non lascia a Tremonti lo spazio per diventare l'ideologo nel campo dell'economia». Più pragmatismo, meno ideologia. È questo l'approccio preferito da Berlusconi «che parte – secondo De Michelis – dalla capacità di leggere i punti di forza e di debolezza dell'Italia. Basta vedere come ha chiuso il problema con la Libia nel momento in cui servivano capitali ed energia: se n'è fregato degli ostacoli che da 30 anni frenavano l'accordo e ha portato a casa il risultato che voleva».
È difficile rintracciare delle radici culturali comuni nel nuovo partito. «Nel Pdl – nota Alberto Mingardi, direttore dell'Istituto Bruno Leoni, un think tank liberista – la militanza si compatta su questioni identitarie, non su quelle di policy. Pertanto è un partito che non sente neanche il bisogno di avere delle radici culturali. La formula dell'economia sociale di mercato è una rinfiocchettatura della socialdemocrazia in salsa di destra». «Nel Pdl – aggiunge Gianfranco Polillo, consigliere economico del capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto – c'è tutto e il contrario di tutto. Ma due sono i punti fermi: la caduta dello statalismo del 1989 e il declino del mercatismo con la crisi del 2008. Lo Stato che fino a pochi mesi fa veniva considerato un Leviatano da abbattere adesso ha di nuovo un ruolo. Da definire, ma ce l'ha».

Non tutti però si associano alla demonizzazione del mercato che è seguita alla crisi. «Nella mia visione il mercato non ha fallito – dice per esempio l'economista Mario Baldassarri che entra nel Pdl con Alleanza Nazionale –, semmai ha fallito lo Stato per la sua incapacità di dare regole efficaci. E ora corriamo il rischio di fare altri danni con reazioni protezionistiche. Quindi, per il futuro, dobbiamo puntare ancora sull'economia di mercato, con regole serie e uno Stato che fa rispettare i diritti. Vogliamo chiamarla economia sociale di mercato? Benissimo, purché sia questa. Del resto il Dna del centro-destra dovrebbe essere quello della Destra storica italiana: rigore nella gestione della finanza pubblica e rigore nella vigilanza sul mercato, senza fare affidamento sull'etica degli operatori che badano solo al loro interesse. Insomma, ci vuole uno Stato vero in un mercato vero».

Ma Berlusconi è soprattutto un imprenditore politico, un uomo di marketing che sa vendere agli elettori quello che vogliono sentirsi offrire. Sa andare d'accordo con gli imprenditori, crea un asse preferenziale con Cisl e Uil convincendoli a rompere con la Cgil, è il punto di riferimento per i commercianti e per gli artigiani. «Ma proprio per questo – osserva De Michelis – quando deve dimostrare di essere un riformista vero, per esempio sulle pensioni, non ci riesce». Insomma, vince senza cambiare davvero. Il neonato Pdl può accentuare questa tendenza oppure dargli la forza per iniziare una nuova fase.

29 marzo 2009
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