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di Mario Monti

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Oggi, la crisi colpisce l'Italia in modo meno acuto di altri paesi per alcune nostre caratteristiche strutturali, oltreché per l'attenta gestione che ne sta facendo il governo. Al tempo stesso, non si può dimenticare che per dieci anni l'Italia ha avuto una crescita sistematicamente inferiore a quella della zona euro. Quando usciremo dalla crisi, non ci ritroveremo su una traiettoria di crescita migliore di prima, a meno che si intensifichi l'opera di ristrutturazione della nostra economia.
È oggi riconosciuto da tutti come punto di forza il fatto che l'Italia sia riuscita a far parte della zona euro fin dall'inizio. Ma ciò non esime, e anzi rende necessarie, riforme ulteriori. La crisi non deve essere vista come una lunga parentesi di eccezionalità, durante la quale sarebbe consentito – o addirittura opportuno – sospendere i lavori per rendere l'economia italiana più competitiva, capace di crescere di più, e la società italiana più equa, meno "chiusa" ai giovani e agli esclusi.
La mia mente torna alla fase della nascita dell'euro e dell'entrata dell'Italia nell'euro. Ho vissuto quei momenti da Bruxelles, come membro della Commissione europea. Ricordo specialmente lo straordinario impegno personale profuso da Carlo Azeglio Ciampi quale ministro del Tesoro nel governo Prodi..

Vale la pena di ricordare i passaggi iniziali. Nel giugno del 1996, il presidente del Consiglio Romano Prodi presentò il documento di programmazione economica e finanziaria per il 1997-1999: il disavanzo programmato per il 1997, anno di riferimento sul quale si sarebbero dovuti verificare i titoli per l'ingresso dell'Italia nella moneta unica, era ben superiore al 3% previsto dal Trattato di Maastricht. Come commissario europeo al mercato interno, nominato dal governo italiano – ma non competente per gli affari economici – dichiarai allora pubblicamente: «Attenzione! In questo modo Prodi non ci porta nell'euro sin dall'inizio». Da parte del primo ministro si ebbe una reazione comprensibilmente furiosa: «Monti ha raggiunto il raro risultato di mettersi in contrasto col suo governo e con la Commissione europea» disse allora Romano Prodi. Era proprio così. Tuttavia, mi era parsa una scelta responsabile, e doverosa per un commissario italiano, allertare l'opinione pubblica del nostro paese.
Anche nella Commissione europea molti furono scontenti. Al di là del mio essermi pronunciato su una materia della quale non ero istituzionalmente competente, vi era una ragione di fondo. Ampi settori delle classi politiche tedesche, francesi, olandesi, molto influenti sulla Commissione, non volevano l'Italia nell'euro (anche se l'industria tedesca temeva, come osservato da Giulio Tremonti, la "libertà di svalutazione" di un'Italia fuori dall'euro). E non vedevano di buon occhio che il tema diventasse di pubblico dominio.
Fu messo a punto un piano economico rivisto, che permise il tempestivo ingresso del nostro paese nell'euro. E il presidente del Consiglio Prodi seppe superare il risentimento nato da quel contrasto tra noi, visto che tre anni dopo mi propose di continuare a servire l'Unione come membro della Commissione da lui presieduta.
Nel 1998, la direzione generale Affari economici presentò alla Commissione il rapporto sui dati del 1997, in base ai quali la Commissione avrebbe proposto al Consiglio quali paesi fare entrare nell'eurozona e quali no. Con Emma Bonino, anch'ella membro della Commissione, guardammo con apprensione i dati relativi all'Italia: il deficit figurava al 4%, dal momento che non veniva presa in considerazione la piena attuazione di misure che pure erano state decise dal governo italiano. A quel punto, avemmo una serie di incontri convulsi coi responsabili della direzione generale Affari economici. E alla fine riuscimmo a fare accettare che nella tabella figurasse il disavanzo al 3%, con una nota che precisava «supponendo la piena applicazione dei provvedimenti presi dal governo». Così la Commissione poté proporre che l'Italia facesse parte, sin dall'inizio, della pattuglia di paesi dell'euro.
Se ricordare il passato è importante, ancora più importante è dedicare attenzione, su scala europea, a un altro tema: usciremo dal tunnel solo adottando un nuovo patto strategico. L'alternativa è che la crisi conduca alla disgregazione del mercato interno, che è in effetti la base su cui è fondata l'Unione Europea.
L'Unione è stata costruita come soggetto d'integrazione fondato su uno zoccolo duro, che è appunto l'integrazione di mercato. Oggi, però, l'economia di mercato versa in una grave crisi, una crisi di sistema e globale. Allora, ci si deve porre una domanda: potrà andare avanti la costruzione europea, visto che è fondata su un sistema in crisi?
Avere affrontato il tema dei paradisi fiscali in sede di G-20 è stata certamente un'opera meritoria e importante. Sappiamo quanto è stato difficile. Ma iniziative utili per combattere l'evasione fiscale sono insufficienti per contrastare l'elusione legale. La realtà, infatti, è che ciascuno dei paesi dell'Unione Europea, o del G-20, funziona per certi versi da paradiso fiscale per i residenti degli altri.
  CONTINUA ...»

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