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È per questa ragione che il problema fiscale è così difficile da trattare politicamente, sul piano europeo. Non si tratta di guardare a un'utopica e non necessaria armonizzazione fiscale completa, ma ritengo che il problema di alcune limitazioni alla concorrenza fiscale vada comunque posto. La crisi attuale, a questo riguardo, apre uno spazio inatteso.
In Europa coesistono due modelli diversi: ci sono paesi che si reggono sul modello anglosassone, e ci sono paesi che si reggono su un'economia sociale di mercato. Mentre i primi stanno rapidamente rivedendo le proprie posizioni – come del resto gli Stati Uniti di Barack Obama, che puntano a dotarsi di un sistema di welfare – i paesi a economia sociale di mercato vedono una rivalutazione del proprio modello. Quando l'Irlanda annuncia che dovrà aumentare le imposte, il segnale è chiaro: sono gli stessi paesi anglosassoni a guardare con maggiore rispetto all'economia sociale di mercato che si pratica nell'Europa continentale. E persino la Cina, se osserviamo invece la scena globale, guarda con interesse all'economia sociale di mercato. In altri termini: si può ipotizzare una convergenza verso il tipo di modello praticato nell'Europa continentale, tanto disprezzato in passato.
Negli ultimi anni, d'altra parte, le economie sociali di mercato sono state costrette a compiere alcuni passi in direzione del modello anglosassone. Adottando, almeno sulla carta, la strategia di Lisbona, hanno cercato di guadagnare maggiore competitività, secondo quanto previsto dal modello anglosassone.
E siamo arrivati così ai paradossi di oggi. I paesi "anglosassoni" – ossia la Gran Bretagna e l'Irlanda, ma nella sostanza anche i nuovi stati membri, molto legati al mercato unico – se la prendono ormai con la Germania e la Francia perché Berlino e Parigi stanno cercando di eludere le regole sul mercato unico, sulla concorrenza, sugli aiuti di stato. D'altra parte, paesi come la Germania e la Francia hanno problemi col mercato unito anche perché i paesi anglosassoni e i nuovi stati membri continuano a opporsi radicalmente a ogni forma di coordinamento fiscale. E quindi li costringono – questa almeno la tesi difensiva – a perseguire i loro obiettivi sociali con interventi che vanno in parte "contro" il mercato stesso.
Negli stati nazionali, il sistema fiscale è sempre stato il sistema classico, accanto a forme di solidarietà privata, per perseguire obiettivi di distribuzione del reddito. Oggi, la concorrenza fiscale fa uscire dalla porta la finalità distributiva; per cui gli stati tendono a farla rientrare dalla finestra, ponendo ostacoli al mercato unico. Ecco perché ritengo che si sia forse creato uno spazio per una sorta di nuovo patto strategico all'interno dell'Unione Europea. Questo patto – che riguarda lo "scambio" fra limiti alla concorrenza fiscale e difesa o, meglio, completamento del mercato unico – dovrebbe essere proposto dalla nuova Commissione, che perlomeno in una fase iniziale dovrà scontare di ricevere molti "no". Ma quanti "no" abbiamo sentito pronunciare nel 1996-1997, quando inizialmente la Commissione propose il "pacchetto fiscale", alla fine adottato all'unanimità nel dicembre 1997! L'esperienza diretta di quella fase – che vissi come commissario alla Fiscalità – mi induce a ritenere che, specialmente con la riapertura dei giochi causata dalla crisi, un compromesso per rilanciare l'integrazione europea non sia impossibile.
