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di Giulio Tremonti

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9 giugno 2009

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Il mutamento che si è avuto sotto l'impulso della crisi economico-finanziaria non è stato solo quello dal semplice coordinamento a un coordinamento rafforzato. È stato il passaggio dal coordinamento alla decisione collettiva: gli ultimi interventi europei, all'interno dell'Europa o attraverso l'Europa nel G-20, sono stati via via sempre più mirati verso forme di scelta collettiva.
Il passaggio dei passaggi, dal coordinamento al collettivo, avverrà comunque in modo completo solo quando l'Europa deciderà di fare una politica comune d'investimenti pubblici. E qui si apre il discorso di una nuova versione prima, e dell'applicazione poi, del vecchio e glorioso piano Delors. Credo che una politica di stimoli sia necessaria, in tempi di declino della domanda. E un vero stimolo l'Europa lo può dare solo se fa una politica industriale d'investimenti pubblici collettivi: questa politica non è che la versione attuale del piano Delors. Eppure, continuano a dominare – e si tratta di un limite evidente – logiche nazionali. Alla richiesta di cominciare a studiare l'emissione di eurobond, la reazione di parecchi governi europei è stata questa: gli eurobond ci sono già e si chiamano Bund. È l'espressione di una visione non particolarmente comunitaria, anche se viene dalla Germania e anche se non cancella la nostra speranza di progredire verso l'obiettivo di bond europei.
Quanto all'immagine hard del nostro paese, dobbiamo tenere conto, nella realtà sostanziale, di un primo aspetto: il differenziale italiano relativo al debito pubblico. L'Italia è ancora un paese che ha un debito pubblico a tre cifre, mentre gli altri lo hanno a due cifre, pur avendo una velocità di crescita del debito maggiore della nostra.
Questo dato di fatto ha marcato la nostra storia. L'Italia cresce molto negli anni 60 e negli anni 70, fino a recuperare, negli anni 80, il suo differenziale di crescita con l'Europa: ma lo fa da ultimo anche con la spinta del debito pubblico. Quando l'Italia smette di seguire una politica di spinta economica attraverso il debito pubblico, si apre il differenziale, e gli altri paesi crescono più rapidamente: forse ci si dovrebbe chiedere se l'effetto di crescita, negli altri paesi, sia davvero dipeso da riforme strutturali o non piuttosto dal fatto che questi paesi stavano in realtà accumulando enormi quantità di debito. Soltanto che in questi casi si trattava di debiti privati, non pubblici; mentre oggi che i salvataggi pubblici prendono la forma di un colossale "derivato pubblico", si spostano i debiti derivati tossici dal privato al pubblico. Ma alla fine sempre debito è, privato o pubblico che sia.
È per questo che credo sia necessario compiere una riflessione approfondita sul rapporto tra debito e crescita. L'Italia ha un grande debito pubblico, ma non ha un grosso indebitamento privato. Considerando che ormai si tende a consolidare i due debiti, anche perché avvengono passaggi dal privato al pubblico, il differenziale negativo risulta essere meno forte di prima.
Il secondo aspetto di cui tenere conto è la struttura industriale del nostro paese: quattro milioni di partite Iva vuol dire quattro milioni di imprese medio-piccole, di lavoratori autonomi, di persone che comunque lavorano allo sviluppo economico del paese. È un dato fondamentale, al quale bisogna aggiungerne un altro. Il nostro paese non ha solo export, ha anche una domanda interna rilevante. L'Italia è insomma più equilibrata di altri paesi che hanno una propensione dominante all'export, e probabilmente è anche più ricca.
Se questo non risulta dalle statistiche, e pur tenendo conto dell'evasione fiscale, è per il peso di un fattore hard spesso trascurato. Molta parte del sistema industriale italiano è legalmente posseduto attraverso holding estere basate in Europa. Il che significa che larga parte dell'attività dei gruppi industriali medi italiani è operata attraverso la struttura estera: per fare gli investimenti nell'Est o nel Asia orientale, si opera attraverso la struttura europea, utilizzando una holding europea. Cosa che per la verità non è illegale, ma perfettamente conforme a un sistema giuridico che, integrandosi, consente di trasferire la proprietà di un'attività in altri paesi europei, piuttosto che nel paese di origine. La conseguenza, in ogni caso, è che una quota enorme della ricchezza italiana non rientra nelle statistiche: non per illegalità, ripeto, ma per la semplice applicazione di un particolare criterio di organizzazione della proprietà. E, da Marx in poi, è la proprietà a contare, a fare la differenza.
In sostanza, la mia convinzione è che l'importo dei global assets posseduti in proprio dall'industria italiana sia enormemente superiore a quello che risulta dalle statistiche (e pur scontando l'evasione fiscale).
Tutto ciò spiega un elemento ulteriore: l'Italia è un paese duale, e purtroppo lo è sempre di più. Dire che in base alle statistiche siamo sotto gli standard di ricerca, di produttività o di altri indicatori è un modo assolutamente arbitrario di leggere le statistiche. Per essere chiari, il Centro e il Nord dell'Italia hanno livelli di ricchezza, strutturati da anni, comparabili a quelli delle grandi aree europee – dalla Baviera all'Île de France – corrispondenti al grande arco di ricchezza che un tempo veniva definito "carolingio". E non è possibile mantenere per tanto tempo questi livelli di ricchezza senza avere un alto livello di ricerca scientifica, di produttività e di tutti gli altri indicatori che invece nelle statistiche ci vedono penalizzati. La verità è diversa da quella che ci raccontano gli esperti. E consiste nel fatto che siamo un paese unico, sì, ma duale: fondamentale, in senso negativo, è il divario crescente tra Nord e Sud. Se si considera questo elemento hard, l'unica conclusione possibile è che la nostra strategia fondamentale di permanenza in Europa dipende dal rilancio del Sud.
  CONTINUA ...»

9 giugno 2009
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