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Veltroni: «L'Europa non è più socialista»

di Fabrizio Forquet

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29 Settembre 2009

Trentatré virgola sette per cento. Più Walter Veltroni rilegge il risultato dei socialdemocratici tedeschi, bloccati poco oltre il 23%, più ripete ad alta voce quel dato: 33,7 per cento.
«Le sembra poco?».

Cosa?

Le sembra poco aver portato poco più di un anno fa un partito del centro-sinistra europeo, il Partito democratico, oltre il 33%?

Parliamo del risultato dell'Spd.

Appunto. Guardiamo al risultato dell'Spd: 23%, non era mai andata così male dal 1949. Ed è un processo che va avanti da molto tempo, coinvolgendo i socialdemocratici di gran parte d'Europa. I laburisti inglesi dieci anni fa avevano il 44,5% e alle Europee hanno preso solo il 15,3%; i socialisti francesi sono calati dal 28-29% al 16, quelli austriaci dal 33% al 23.

Che insegnamento ne trae?

Che non è più tempo di partiti ancora espressione della storia del Novecento. La grande partita per il governo si gioca in due aree, centro-sinistra e centro-destra di governo, nelle quali bisogna mostrare la propria capacità di interpretare la società moderna, di dare risposte adeguate, di essere non ideologici e, al tempo stesso, di avere una visione e un sistema di valori forti. Nelle nostre società c'è una nuova radicalità, collegata a fenomeni sociali come la precarizzazione, che richiedono un riformismo radicale ma non estremista.

La socialdemocrazia tedesca, però, con Schroeder queste scelte le aveva fatte.

Sì, e ha governato per anni. Esattamente come ha fatto Tony Blair. Poi però poi in Germania c'è stata la grande coalizione. Un'anomalia, perché ormai tutti gli elettori in Occidente hanno introiettato culturalmente il bipolarismo. Siamo in un tempo storicamente, culturalmente e socialmente nuovo: ed è chiaro che gli elettori si riconoscono in due grandi campi alternativi.

Non è che, come ha detto Ralf Dahrendorf già negli anni Ottanta, la socialdemocrazia è su un binario morto?

Non solo la socialdemocrazia. È su un binario morto l'idea del secolo scorso che il voto sia l'espressione rigida di una appartenenza politico-ideologica. Oggi bisogna avere fiducia nella capacità di spostare milioni di elettori. C'è una tendenza di fondo in Europa che va a destra, non c'è dubbio. Ma questa c'era anche negli Stati Uniti tra il 2001 e il 2008. Poi a un certo punto lì è emersa una proposta che ha spostato 9 milioni di elettori.

Gli Stati Uniti non sono l'Europa. E in Italia la sua «vocazione maggioritaria» ha fatto fatica a farsi strada.

Alla luce di quello che succede in tutta Europa solo chi vuole fare del male al Pd può non riconoscere il valore di quel risultato del 33,7 per cento. Si usciva dall'esperienza, diciamo contraddittoria, per usare un'espressione responsabile, del governo Prodi e noi portammo il Partito democratico al maggior numero di voti mai avuto da un partito riformista in Italia.

Ma il governo del paese era perso.

Bisognava avere il senso di responsabilità di affidare a questa grande base che si era costituita il compito di crescere nel tempo e prepararsi alle elezioni successive. È così che fanno le leadership politiche collettive. In Grecia il mio amico George Papandreou probabilmente vincerà le prossime elezioni, ma dopo averne perse due. Nel Regno Unito David Cameron probabilmente farà lo stesso. Funziona così. Serve tempo per innovare e spostare elettori.

Il Pd oggi sembra ripiegato su se stesso.

È chiaro che se in questo momento, con tutto quello che succede, il Partito democratico torna a configurarsi come un partito socialista classico, e magari con l'ambizione di creare una grande coalizione, rischia di pagare un prezzo molto alto. Sono le due cose che sono state bocciate dagli elettori tedeschi e europei. Sarebbe un errore ripercorrere quella strada.

Nella prossima settimana si terrà il congresso del Pd. Con che spirito parteciperà?

Un congresso è un congresso. E quando la gente vota e si confronta è sempre un bene. Però al fondo c'è questo grande tema politico: si vuole mantenere un paese bipolare, con un'alleanza riformista che abbia al centro un grande partito riformista? Se è questo allora bisogna comportarsi diversamente. Mettere in discussione la vocazione maggioritaria significa tornare indietro di dieci anni. E proprio nel momento più sbagliato: perché i partiti socialisti e le grandi coalizioni in tutta Europa pagano un prezzo.

  CONTINUA ...»

29 Settembre 2009
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