«In primo luogo, i quesiti sono troppo tecnici e i cittadini non sempre li comprendono a pieno; in secondo luogo, rinunciare a partecipare è sinonimo di una certa stanchezza nei confronti del dibattito politico, nei confronti del funzionamento della democrazia, e questo ci deve fare riflettere tutti». L'analisi sulla debacle del referendum elettorale è del presidente della Camera Gianfranco Fini. Nelle sue parole c'è l'amarezza per aver perso una battaglia condotta in prima persona, con la raccolta delle firme da parte di An, e allo stesso tempo c'è un serio e preoccupato esame dei motivi del fallimento.
Al di là della campagna fatta dai diversi schieramenti politici pro o contro la consultazione e anche al di là della scelta (un po' partigiana) di non includere il referendum nell'election day, un dato di fatto è incontrovertibile: un'affluenza così bassa (intorno al 20%) deve avere motivazioni più profonde della semplice scelta politica da parte degli elettori. E deve inevitabilmente affondare le proprie radici in una disaffezione dei cittadini nei confronti di questo istituto di consultazione popolare. Che forse andrebbe limitato a questioni più accessibili al grande pubblico delle tecnicalità di una legge elettorale già di per se complessa e invisa tanto da essere soprannominata "porcellum".
Non c'è poi da trascurare i casi di referendum andati in porto e poi traditi. Basti pensare alla popolare bocciatura del finanziamento pubblico dei partiti nel 1993 e alla successiva riproposizione della legge sui rimborsi delle spese elettorali di appena qualche anno dopo. È chiaro che deve restare intatta la totale autonomia delle Camere ma il senso di un referendum vittorioso non può essere ribaltato. Pena lo svuotamento dell'istituto. Un prezzo che paghiamo con il risultato di oggi.