Dal 1991 si sono svolti numerosi referendum elettorali. Alcuni approvati, altri no. Ma nessuno ha suscitato tante perplessità come quello del prossimo 21 giugno. Il nodo non sono le candidature plurime sulla cui abolizione esiste un largo consenso. Il problema cruciale è il premio di maggioranza assegnato alla lista e non alla coalizione più votata. Non è facile difendere un sistema elettorale in cui il partito che ottiene un voto più degli altri ha diritto al 54% dei seggi indipendentemente dalla percentuale di voti ottenuta. Nemmeno la legge Acerbo con cui si votò nel 1924 arrivò a tanto visto che il premio scattava solo se una lista avesse ottenuto almeno il 25 % dei consensi. E allora come si giustifica un meccanismo che nemmeno Mussolini aveva osato introdurre? Gli stessi sostenitori del referendum sono in difficoltà.
La giustificazione prevalente è che il referendum produrrà – in caso di vittoria dei sì – un tale obbrobrio che la classe politica dovrà per forza mettere mano a una riforma. Questa razionalizzazione assomiglia a quella che circolava prima della caduta del governo Prodi. Allora i sostenitori del referendum lo vedevano come una pistola puntata contro l'establishment politico. La minaccia doveva produrre la riforma con il risultato che il referendum non si sarebbe svolto. La riforma non c'è stata. È caduto invece il governo Prodi.
Mutatis mutandis, oggi siamo alla stessa metafora. Solo che invece di sparare prima del referendum, la pistola dovrebbe sparare dopo. Ma che cosa fa pensare ai referendari che dopo aver fatto cilecca questa volta l'arma spari davvero? A seminar dubbi ci ha già pensato Berlusconi con la sua affermazione che a lui il sistema di voto referendario andrebbe benissimo. Il vero dubbio per i fautori del referendum, almeno per i bipolaristi come Guzzetta e Segni, dovrebbe essere un altro. La pistola potrebbe colpire il bersaglio sbagliato. Anche se Berlusconi cambiasse idea, spinto dalla Lega, una riforma in che direzione andrebbe? Maggioritaria o proporzionale? A ben guardare quello che succede nel Pd, il rischio è che il superamento del sistema eventualmente approvato con il referendum possa portare alla abolizione del premio di maggioranza e quindi al ritorno al proporzionale. Dentro il Pd non ci sono solo i Ceccanti che raccolgono le firme per ripristinare la legge Mattarella, ci sono anche Chiti e altri che rispolverano l'idea di un qualcosa tra il tedesco e lo spagnolo, ma in fondo più tedesco che spagnolo. Così, invece di un sistema ancor più bipolare o bipartitico, il risultato finale potrebbe essere un sistema multipartitico e non bipolare.
In realtà, se il 21 giugno i referendari vincessero nessuno oggi può dire cosa succederebbe dopo. Lo status quo che si verrebbe a creare avrebbe una sua forza di inerzia. E scoperchiare il vaso di Pandora della riforma elettorale comporterebbe il rischio concreto di un ritorno al passato. Il referendum Segni del 1993 ha aperto la strada del maggioritario e del bipolarismo, quello Guzzetta-Segni del 2009 potrebbe paradossalmente chiuderla.