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Le sedi e le spese universitarie

I test d'ingresso

Nelle classifiche i poli migliori
ma con criteri (troppo) diversi

di Andrea Curiat

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15 GIUGNO 2009

Non è certo una sorpresa: nelle classifiche internazionali delle migliori università al mondo, gli istituti americani e inglesi continuano anche oggi ad accaparrarsi le prime, ambite posizioni. E l'Italia? Gli atenei nostrani, è bene dirlo, sono presenti mediamente in gran numero, ma per individuarli bisogna scorrere verso il basso l'elenco dei ranking, spingendosi spesso ben oltre la soglia della centesima posizione.
Va detto, però, che le classifiche internazionali – per quanto fonte di utili indicazioni – non sono sempre da prendere come oro colato. Si basano su criteri diversi e spesso arrivano a risultati differenti. Cosa che non accade, invece, con le più comuni classifiche dei master, che sono incentrate su un indicatore oggettivo come il successo sul mercato del lavoro.
Guardando agli elenchi universitari, ad esempio, il Performance ranking dello Higher education evaluation & accreditation council of Taiwan (Heeact) include 29 atenei italiani, con l'Università di Milano e La Sapienza di Roma al 77esimo e 96esimo posto. L'Academic ranking of world universities, pubblicato dall'Institute of Higher Education dell'Università di Shanghai Jiao Tong, include quest'anno 22 atenei italiani rispetto ai 20 del 2007, ma nessuno di questi rientra nella Top 100. Nel Ranking Web of world universities del Cybermetrics Lab, l'Alma mater di Bologna conquista la 92esima posizione, seguita a lunga distanza dall'Università di Pisa al 212esimo posto.
Nell'indagine World university rankings, pubblicata dal periodico inglese Times Higher Education, è presente la sola Università di Bologna, ferma al 192esimo posto su un totale di 200. L'Italia è completamente assente dalla lista dei 100 migliori atenei al mondo stilata nel 2006 dal settimanale Newsweek.
Secondo Giovanni Azzone, membro del Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario (Cnvsu) e docente al Politecnico di Milano, «la presenza di un gran numero di università italiane nelle fasce medio-basse delle classifiche internazionali è dovuta a una specifica scelta politica. Il nostro sistema accademico non punta su pochi centri di eccellenza, come accade in Inghilterra, ma ha sviluppato un gran numero di istituti di buona qualità. Una strategia diversa, ma ugualmente valida».
Bastano pochi esempi per prendere atto del relativismo dei criteri di valutazione dei ranking. L'Università di Shanghai considera esclusivamente sei fattori, che includono il numero di vincitori di un Premio Nobel, la quantità di articoli e citazioni sulla stampa specializzata e la performance accademica in rapporto alle dimensioni dell'istituto. Lo Heeact adotta invece un metodo di analisi "bibliometrico", analizzando la produttività della ricerca (per numero di articoli pubblicati), il suo impatto (per quantità di citazioni) e il livello di eccellenza (con riferimento alle pubblicazioni su periodici di alto livello).
Secondo Carlo Calandra Buonaura dell'Università di Modena e Reggio Emilia, membro del Cnvsu, le classifiche internazionali non costituiscono uno strumento utile per il governo ordinario delle Università: «Il contesto universitario europeo è profondamente diverso da quello asiatico, statunitense o anglosassone. I vincoli finanziari per la ricerca variano di Paese in Paese, il numero di premi Nobel non può essere pianificato e non tutte le pubblicazioni su riviste scientifiche sono di alto livello». Il giudizio di Calandra è netto: «Occorre uno strumento che consenta di fissare obiettivi concreti. Meglio, allora, mettere a confronto tra loro le singole università italiane, cercando però di tenere presente che ogni ateneo ha la propria missione specifica».

15 GIUGNO 2009
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