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Un segnale alla cattiva politica

di Andrea Romano

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30 MARZO 2010

,La vera novità di queste elezioni (l'emersione di un partito del non voto di dimensioni mai viste nella storia repubblicana) può essere analizzata da due prospettive radicalmente differenti. La più semplice e diffusa è quella che in questi giorni abbiamo letto e ascoltato da più parti: se l'esercizio del voto è un «dovere civico», come recita l'articolo 48 della Costituzione, chi non vota rinuncia a decidere del proprio futuro e consegna le chiavi del paese o della regione al primo che passa.

Ne deriva che gli astenuti hanno sempre torto e che la crescita del non voto è un sintomo allarmante di distacco dei cittadini dalla democrazia. Detta con un pizzico di crudezza: la minestra che passa il convento va sempre accettata con gratitudine, anche se è ben lontana dall'essere gradevole al palato. La seconda lettura è più lontana dai canoni tradizionali del discorso pubblico italiano e guarda alla nuova fisionomia che l'astensione dal voto ha assunto nelle democrazie contemporanee. Non solo negli Stati Uniti, dove come è noto l'esercizio del diritto di voto comporta un sovrappiù di volontarismo richiesto dalla registrazione alle liste degli elettori, ma anche in paesi come la Francia e la Gran Bretagna che certamente non possono essere considerate esempi di democrazia incompiuta. In questi come in altri casi si segnala ormai da anni un andamento variabile della partecipazione al voto. Non tanto un calo costante dei votanti, ma per l'appunto una variazione quantitativa del partito degli astenuti in relazione alla migliore o peggiore qualità dell'offerta politica. Detta con lo stesso pizzico di crudezza: se la minestra che passa il convento proprio non mi piace, posso anche saltare la cena senza sentirmi in colpa. Non lo farò per sempre né maledirò la generosità dei frati, ma forse la prossima volta quella loro mensa potrà fare più attenzione alla qualità della cucina.
Fuori di metafora, è evidente che anche l'Italia sta importando dalle democrazie più avanzate l'uso consapevole del non voto. Un fenomeno che non può più essere sbrigativamente etichettato come una manifestazione di distacco dalla cosa pubblica o peggio ancora come un sintomo di qualunquismo, ma che rappresenta ormai uno degli strumenti di espressione democratica a disposizione della società civile. Laddove l'offerta politica è inadeguata, ripetitiva o semplicemente lontana dai bisogni reali dei cittadini, l'elettore ricorre al non voto anche per inviare un ammonimento alla politica. Al contrario di una delega in bianco, è l'espressione di una partecipazione alla vita pubblica che si sottrae al ricatto della scelta obbligata tra due o più proposte deludenti.
D'altra parte è stato ripetuto fino alla noia che quest'ultima campagna elettorale sarà ricordata a lungo per la sua pessima qualità. Non solo per i toni particolarmente esacerbati del confronto politico nazionale, ma anche e soprattutto per il distacco dai temi più autentici su cui gli elettori avrebbero dovuto decidere a chi affidare la guida delle loro regioni.
Abbiamo forse discusso di sanità, infrastrutture, rifiuti? Poco e male, nel piccolo spazio lasciato libero da un rumore di fondo nel quale si mescolavano le stesse ossessioni nelle quali il nostro paese è immerso ormai da quindici anni: i fantasmi del regime o del golpe giudiziario, piuttosto che le grida di allarme per l'alluvione di intercettazioni o per il dilagare delle corruttele. Dinanzi ad una campagna tanto deludente e ripetitiva c'è davvero da stupirsi per la crescita delle astensioni? Domandiamoci piuttosto in quali modi una politica responsabile potrà recepire il messaggio lanciato da quel terzo di italiani che ha deciso di non andare al voto. Un messaggio meno primordiale di quanto si pensi: un segnale di consapevolezza che altre democrazie hanno già conosciuto, certamente lontano dall'espressione di un qualunquismo che forse è incarnato proprio da questa cattiva politica.

30 MARZO 2010
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