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ANALISI / Il voto senza retorica

di Mario Margiocco

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Il lungo autunno americano del 2008 si conclude oggi con la più sentita delle tornate elettorali dal trionfo di Lyndon B. Johnson nel 1964, quando l'affluenza fu quasi del 70 per cento. Nell'eterno pendolo tra i due principi fondanti d'America, l'opportunità che premia i più audaci e l'uguaglianza che protegge i più deboli, è l'ora di quest'ultimo. Sono in molti a sentirsi deboli. Barack Obama incarna questa stagione.

La cultura della speranza, la colla che tiene insieme opportunità ed eguaglianza e che si chiama Sogno americano, ha ricevuto da mesi di crisi finanziaria e da anni di errori politici colpi pesanti, e va ricostituita. Per farlo, con Obama senz'altro,ma in parte anche con John McCain, l'America dovrà pensare molto più a se stessa, rischiando di ripiegarsi, e di diventare al di là della retorica meno incline all'azione, più trincerata commercialmente, forse disposta a non congelare l'era delle grandi aperture dei traffici, ma solo se stimolata e costruttivamente contrastata da altri. La leadership avrà troppo da fare all'interno per dedicarsi davvero alla scena internazionale, emergenze a parte. Troppe promesse sono statefatte soprattutto dai democratici, mai come adesso, negli ultimi 40 anni, appoggiati dai sindacati, da tempo protezionisti. Gli Usa sono molto deindustrializzati, hanno nel manifatturiero 13 milioni di lavoratori. Produttivi, ma pochi. Meno di Germania e Italia insieme, che hanno solo metà della popolazione americana.

Sconfitta l'Urss, il mondo non sempre è diventato più americano. Il senso di onnipotenza è perduto. Il Paese va risanato: finanza, economia, società, ponti, strade, energia, reti di comunicazione. L'elettore medio è insoddisfatto e disorientato. Infelice. La pesantezza della crisi finanziaria è ben presente a tutti. Anche se il pieno della vettura media, una delle tante giapponesi e coreane o (assai meno) delle europee che hanno cambiato la scenografia delle strade americane decretando il suicidio di Detroit, torna a costare solo 20 dollari. Ma è il prezzo della crisi. E solo meno di 20 banche su 8mila sono fallite o hanno rischiato di fallire, ma grazie alla mano pubblica e a un costo finale che potrebbe avvicinarsi a 2mila miliardi di dollari. Un conto già girato al contribuente. Persino la guerra in Iraq è diventata prima di tutto finanziaria, un problema di costi.

Quello di oggi è un referendum su come si è conclusa con George W. Bush una lunga era repubblicana, inaugurata da Richard Nixon nel 1968, confermata nel '72, e impersonata al meglio da Ronald Reagan. Ed è un referendum su Obama, se sia o no l'uomo giusto per risanare e rilanciare l'America. Le sparute chance di McCain, oppresso da un'eredità pesante,risiedono solo nell'avere di fronte un afroamericano, molto afro, molto americano anche, dai tratti arabeggianti, dal nome strano e dal curriculum breve. Ma che ha saputo ispirare le masse. Aiutato dalla grande crisi.

Ogni piano economico è sovrastato dalla necessità di affrontare la crisi, ri-regolare il settore finanziario e rilanciare l'economia, ha detto lo stesso Obama in un'intervista tv. Il messaggio è chiaro: sono e saranno gli eventi a dettare l'agenda. Che dice: spesa pubblica, in deficit. Anzi, dimenticando per una stagione il deficit. Fortissima con i democratici, che devono far vedere di saper risollevare il Paese, questa linea sarebbe forte anche nell'ipotesi di una Casa Bianca a McCain, con un Congresso che sarà tutto democratico. Oggi si rinnovano come ogni due anni anche 435 deputati, e i democratici potrebbero acquisirne 25-30 riportando lo scarto attorno ai 100 seggi, come fu a volte fra il '34 e il '94. Si rinnovano 35 senatori su 100, previsione di 7-8 seggi in più; e 11 governatori, più infinite cariche locali. Quella del 2009-2010 potrebbe essere un'iniezione di denaro pubblico superiore, in proporzione, a quella del New Deal, che fu molto attivo, ma sostanzialmente attento alla spesa. Con tutte le conseguenze per inflazione e dollaro. L'America, la politica lo ha già deciso, quella democratica soprattutto, ha bisogno di una scossa. Che potrebbe essere positiva, sul breve-medio periodo, per i mercati, storicamente cresciuti di più con i democratici che con i repubblicani. Sul lungo, occorre una classe dirigente capace di rientrare nei ranghi della spesa, o il costo ultimo sarà pesante.

I sondaggi dell'ultima ora dicono sempre Obama, ma con oscillazioni tra gli 11 e i 4 punti, e alla fine non aiutano a capire bene i rapporti di forza in un'elezione che come sempre ha due caratteristiche uniche: primo, sono 51 votazioni diverse, da valutare diversamente, ciascuna con la propria storia anche loca-lissima, nei 50 Stati e nel distretto di Washington, la capitale; secondo, il voto è indiretto, contano più del voto popolare i voti elettorali, pari per ciascun Stato al numero dei deputati più i due senatori. Chi vince il voto popolare piglia tutto, salvo che per Maine e Nebraska, semiproporzionali. McCain può sperare solo nel voto elettorale e partendo da qui si capisce quanto sia in difficoltà. Certo lo spread the wealth, il distribuire la ricchezza obamiano, non sempre è apprezzato negli Stati Uniti, neppure oggi. Ma dato il sistema, deve essere impopolare nei posti giusti.

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