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La vera rivoluzione? È il ritorno al buon senso

di Gianni Riotta

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Caro direttore,
«Schierandosi con chi lavora sodo, rispetta la legge, si preoccupa della famiglia e ama la patria, Reagan offriva agli americani un senso comune che i progressisti hanno perduto. E più i suoi critici diventavano petulanti, più si trasformavano in comparse nella commedia che Reagan scriveva per loro, trasformandoli in sbandati, dediti alle tasse e al deficit, ostili all'America, snob politicamente corretti».

Chi ha scritto queste righe sprezzanti? Il presidente George W. Bush? Il senatore dell'Arizona John McCain, candidato sconfitto dei repubblicani nella notte di martedì? Il guru neoconservatore Bill Kristol? Se avete indicato uno dei tre autori sbagliate: la violenta denuncia dei democratici americani è opera del quarantaquattresimo presidente eletto degli Stati Uniti, successore di Washington e Jefferson, primo afroamericano alla Casa Bianca, Barack Obama, dal suo manifesto «L'audacia della speranza».

Non è la sola sorpresa che attende chi voglia davvero analizzare il credo politico di Barack, dopo l'entusiasmo della vittoria. Obama è persuaso che i democratici abbiano vinto le presidenziali solo tre volte dal 1968 (Carter 1976 e Clinton 1992 e 1996) non vittime della superiore macchina elettorale repubblicana, ma per aver smarrito il senso comune: «I progressisti non sanno dire al ceto medio: ci battiamo per voi...la retorica dei democratici preferisce diritti e privilegi a doveri e responsabilità».

La corsa di Obama, che entusiasma il mondo, non nasce da un torto da riparare o dalla passione militante per questa o quella crociata. Parte dal raziocinante comprendere che «gli americani amano l'ordine, e hanno bisogno di non sentirsi in balia di forze senza volto, ma padroni del proprio destino, personale e collettivo, per ritrovare le virtù tradizionali, rimboccarsi le mani e faticare, patriottismo, responsabilità personale, ottimismo, fede».

Ripeto: «Le virtù tradizionali». Ecco l'identità di Barack Obama e chiunque, uomo della strada o leader mondiale, smarrisse questo principio non potrà né comprendere, né negoziare con il nuovo presidente. È «il radicalismo della rivoluzione americana», studiato dallo storico Gordon Wood, a intrecciare le virtù antiche nell'amore e nel rispetto del common man, la gente semplice.
Ronald Reagan era stato un democratico e fino agli ultimi giorni della sua vita amava ripetere: «Non ho mica lasciato io il partito, è stato il partito a lasciarmi». Con un atto di generosità politica costato carissimo, nei primi anni 60 il Partito democratico siglò in legge i diritti civili propugnati dal reverendo King. Nel farlo il presidente Johnson, un formidabile animale politico, concluse: «E con questo abbiamo regalato ai repubblicani il Sud per una generazione». Verissimo: Nixon, Reagan, Bush padre e figlio vinsero anche grazie al lock, il catenaccio che il sud metteva sulle speranze democratiche.

Già Bill Clinton aveva provato a lavorare contro le élite che affollano i campus americani, sognando la prosa di Derrida e disprezzando il ceto medio americano, considerato, sulla falsariga dei filosofi alla Baudrillard, filisteo. Obama, che i campus della Ivy League li ha frequentati ed è stato il primo nero a dirigere la Law Review di Harvard, ha conosciuto il dolore dei neri ma anche il risentimento dei bianchi poveri, che così a lungo ha penalizzato i democratici. È il mondo che canta il rapper bianco Eminem, i trailer, le case roulotte, i villaggi disprezzati come white trash, spazzatura bianca che traduce l'esclusione in razzismo spicciolo, amore per le armi, un tatuaggio della vecchia bandiera Confederata sul bicipite, l'odio per i diversi.

Barack Obama ha compreso che solo parlando a tutti gli americani avrebbe potuto aprire il "catenaccio elettorale" e fugare i pregiudizi, contro le minoranze e la burocrazia democratica. C'è riuscito, provano i sondaggi, grazie alla crisi finanziaria e al crollo delle Borse, che negli Usa significa disoccupazione, sfratti, rischio pensione e crollo dei consumi familiari. Perché la crisi ha unito l'entusiasmo dei giovani idealisti per Obama, la crociata dei campus, i milioni di volontari sdegnati dall'inane amministrazione Bush il ceto medio spaventato, i ricchi che sanno guardare oltre il proprio portfolio e la working class in affanno. Nelle ultime ore, perfino tra gli elettori che nei sondaggi rispondono "no" alla domanda "credete davvero che bianchi e neri siano uguali?", Obama era in vantaggio, portando i suoi collaboratori a passarsi email scherzose “Razzisti per Obama”.

Dagli anni della guerra culturale conservatori-progressisti, da una parte i commentatori di destra alla Rush Limbaugh, dall'altra i mandarini alla Michael Moore e Noam Chomsky, furiosamente combattuta nella blogosfera tossica di internet, Obama ha capito che il segno era stato passato. Né i repubblicani sono servi dei mulini di Satana di Wall Street, né i democratici neosovietici dell'economia centrale. Accusarsi a vicenda di simili eccessi aliena l'opinione pubblica che non smette solo di credere a questo o quel partito, ma diventa cinica sull'intero processo democratico. Credendo di sconfiggere i propri avversari, si distrugge la stessa dialettica politica.

  CONTINUA ...»

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